A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

Tra memoria e storia. Dalla "Buonarroti" al "Manifesto"

di Sandra Teroni

Quando, con un gruppetto di amici che aveva condiviso le prime forme di contestazione studentesca (creazione di giornali d’istituto e di un coordinamento cittadino), verso la metà degli anni 60 decidemmo di iscriverci al Pci, non avemmo dubbi: saremmo andati alla Sinigaglia, una sezione di strada che raccoglieva tassisti, facchini, ambulanti, artigiani, operai; saremmo andati alla Buonarroti, una Casa del popolo che accoglieva anche una vivace sezione dello Psiup (il nuovo partito nato dalla sinistra socialista) e che offriva uno spazio più ampio di azione e socializzazione, di sperimentazione e verifica. Niente di tutto questo avremmo trovato nella sezione universitaria, e non volevamo perpetuare il circolo chiuso di studenti e professori in cui già ci eravamo sentiti soffocare. Il rapporto con la sezione universitaria fu sempre di sostanziale, reciproca diffidenza: erano bravi intellettuali, ma ai nostri occhi troppo teorici, chiusi su se stessi, senza alcun rapporto con il territorio. Loro ci snobbavano e noi loro. I rapporti furono invece inizialmente buoni con la sezione che li ospitava, la Lavagnini, e con quella di Gavinana, con cui organizzammo una manifestazione contro la guerra del Vietnam, in piazza San Pierino.
La prima iniziativa importante a cui demmo vita fu il doposcuola, un doposcuola-controscuola, contro la “scuola dei Pierini”. L’idea ci era venuta a seguito di qualche frequentazione della scuola di Barbiana, dove ci aveva introdotti Vittorio Lampronti allora giovane medico molto vicino a don Milani e alla sinistra socialista. Facemmo la proposta - subito accolta dal Consiglio della Casa del popolo - di un doposcuola finalizzato al recupero scolastico dei ragazzi del quartiere che, svantaggiati dalla loro condizione sociale, avevano abbandonato gli studi o rischiavano di abbandonarli. Fu un’esperienza molto ricca, per noi appena usciti dalle aule universitarie, ma anche per i giovani che furono coinvolti. Un’altra importante iniziativa fu il consultorio ginecologico, antesignano di quelli che poi sarebbero stati istituiti per legge ma che a quell’epoca solo le donne del Partito radicale sostenevano. Collegato all’AIED, gestito da un’assistente sociale e da almeno una ginecologa, svolgeva un servizio di informazione sulla contraccezione e faceva arrivare la pillola, ancora non autorizzata in Italia, direttamente dall’Inghilterra. A quel che mi risulta, era il solo a Firenze, dove fioriva un commercio di aborti clandestini.
Lo strumento di cui ci servivamo era la commissione culturale, di cui ero responsabile e che rappresentavo anche nel Consiglio della Casa del popolo: raccoglieva un gruppo assai vivace e composito di giovani intellettuali (tra cui Sebastiano Timpanaro, Salvatore Tassinari, Franco Cardini, Cleto Menzella, Roberto Teroni, Corrado Bacci, Antonio Armidelli, Claudio Popovich) e di più anziani dirigenti della Casa del popolo. E aveva preziosi margini di autonomia rispetto alla sezione di Partito, di cui Cleto Menzella fu segretario tra il ‘66 e il ‘69.
 Un altro terreno in cui alcuni di noi – soprattutto insegnanti militanti nel Psiup, e segnatamente Salvatore Tassinari e Corrado Mauceri – furono impegnati in maniera determinante fu il comitato promotore per la costituzione del sindacato scuola aderente alla Cgil. Il Pci era contrario all’uscita degli insegnanti dal sindacato autonomo e aveva una concezione della riforma scolastica prevalentemente istituzionale. Noi sostenevamo invece la necessità di avviare una lotta nella scuola che fosse collegata al movimento operaio e alle lotte di base che andavano profilandosi con inedite modalità. Dopo l’alluvione furono avviate le prime assemblee popolari sulla scuola, con un significativo coinvolgimento di socialisti come Tristano Codignola e Marcello Trentanove; Tassinari sarebbe stato il primo segretario provinciale della Cgil scuola, dal 1968 al 1971.

Neanche quando arrivò l’alluvione, il 4 novembre 1966, avemmo esitazioni: fin dall’indomani, quando l’acqua cominciò a rifluire, arrivando tutti alla spicciolata ci ritrovammo spontaneamente alla Buonarroti. La situazione del quartiere era drammatica: più di sei metri d’acqua avevano devastato case e botteghe, in edifici molto spesso già fatiscenti. C’era bisogno di tutto, e subito. La prima decisione fu di ripulire i locali per fare della Casa del popolo un punto di riferimento organizzativo e logistico. Fummo i primi a reperire e comprare (a Fiesole) pane, acqua, candele, mentre lo stanzone della tombola veniva attrezzato per la distribuzione di cibo, medicinali e vestiario, che cercammo di razionalizzare attraverso un primo rudimentale censimento non appena riuscimmo a rendere le abitazioni minimamente accessibili. Fu questo l’impegno dei più giovani – studenti per la maggior parte – che con le mani rimuovevano i cumuli di macerie e di merce avariata vomitata dalle botteghe. Una consistente presenza di studenti di medicina coordinati da Antonio Torelli (medico psichiatra) e da Riccardo Simoni (ancora studente) ci permise di metter su un vero e proprio ambulatorio, funzionante giorno e notte, che, dopo ripetuti e sfibranti incontri con le autorità militari, si avvalse di medici e materiali della scuola di sanità militare di Costa S. Giorgio. Era nato il Centro di soccorso di Santa Croce; non riconosciuto naturalmente, il che ci impediva di attingere alle riserve di aiuti provenienti da tutta Italia e accumulati a Campo di Marte, nello stadio comunale, dove capitava che il latte si deteriorasse perché non smaltito abbastanza rapidamente.
La scelta che facemmo in quei giorni e quei mesi fu per tutti noi una scelta radicale: mettemmo fra parentesi i nostri impegni professionali, lasciammo le nostre case;  la Casa del Popolo era diventata la nostra casa (ci dormivamo anche), il luogo in cui si imparava stando insieme, lavorando e vivendo insieme. E ci tuffammo con slancio in questo bagno di politica come impegno sociale, in questa esperienza di socializzazione assolutamente eccezionale e mai più ripetuta. Avevamo tutto da imparare, e da inventare anche. Le idee nascevano dall’esperienza, dal confronto immediato e diretto con situazioni e persone reali; ed avevano riscontri immediati. Al nostro interno, le divergenze erano minime; prevaleva la consapevolezza della connessione tra gestione dell’emergenza e lotta politica.
A farci fare un salto di qualità fu l’arrivo di un cospicuo contingente perfettamente attrezzato e ben organizzato, dotato di ruspe, autocarri ribaltabili, gruppi elettrogeni, cucina da campo, viveri, tutto quello che serviva. Erano i primi aiuti che arrivavano, ed erano compagni, inviati dalla Provincia di Perugia e accompagnati dal suo Presidente, Ivano Rasimelli, ingegnere. Lavorarono giorno e notte, liberando finalmente le strade, svuotando le cantine, stasando le fogne, ripulendo le scuole, in una situazione in cui cominciava a profilarsi un’emergenza sanitaria. Tuttavia medicinali, vaccini antitifo, viveri continuavano ad essere irrisori rispetto al fabbisogno. Occorreva un’organizzazione più efficace, bisognava unire le forze, per far fronte all’emergenza e per pensare al dopo alluvione. Maturò così l’idea di costituire un Comitato rionale, in cui confluirono la Casa del popolo, le parrocchie di San Giuseppe e Sant’Ambrogio, l’organismo rappresentativo degli studenti (Oruf), la Provincia e il Comune di Perugia che nel frattempo aveva mandato anch’esso uomini e mezzi. La sede era naturalmente la Casa del popolo, che sempre più rappresentava il punto di riferimento per il quartiere. Il lavoro con i cattolici delle parrocchie fu un’esperienza inattesa e assai significativa: eravamo tutti fondamentalmente atei, i più anziani ancora con le armi della Resistenza sepolte in luoghi misteriosi (o almeno così si  raccontava), e per quelli di noi più aperti al dialogo i referenti erano altri: oltre a don Milani, don Bensi e padre Balducci, il prete operaio don Borghi, don Rosadoni e la comunità della Nave a Rovezzano, don Mazzi e quella dell’Isolotto. Invece l’unità d’azione si realizzava proprio lì, con questi cattolici sconosciuti, politicamente non orientati a sinistra, la piccola e media borghesia delle parrocchie. Con la costituzione del Comitato, insieme ai viveri – peraltro ancora insufficienti – arrivarono direttive e controlli burocratici che, anziché valorizzare il nostro lavoro, tendevano a negare nei fatti le potenzialità del movimento e l’esperienza acquisita. Fummo subito qualificati come troppo radicali, dalle istituzioni e dal Partito. È vero che non risparmiavamo nessuno: dalla Buonarroti partì anche una manifestazione verso piazza Santa Croce in occasione della visita di Paolo VI per il Natale.
Quando venne creato un Coordinamento dei Comitati di quartiere naturalmente partecipammo, perché avvertivamo l’esigenza di dare maggior respiro e forza alle nostre lotte. La prima riunione si tenne il I° dicembre in casa di Fioretta Mazzei, in San Frediano: poco più di una decina di persone in rappresentanza di altrettanti comitati: oltre a Santa Croce (rappresentato da Piero Spagna, all’epoca consigliere comunale a Prato per lo Psiup, e me), San Frediano, Mercato Centrale, Gavinana, Rovezzano, Sorgane, Isolotto, Peretola, Brozzi, Campi, Porta alla Croce, Porta a Prato. All’ordine del giorno c’era già la questione della ricostruzione dei quartieri alluvionati e, intrecciata a questa, la valutazione della proposta di istituire veri e propri consigli di quartieri prontamente avanzata dalla Giunta comunale costretta a fare i conti con la realtà dei Comitati spontanei, ma in un’ottica ribaltata e aberrante che ne faceva il riflesso dello stesso Consiglio comunale. Fu Giorgio La Pira ad aprire la discussione, dichiarando con fermezza che il ruolo di soggetti per la ricostruzione della città spettava ai comitati popolari, che erano stati l’unica forma di organizzazione efficiente, veri “comitati al servizio della città”. Ma già su questo punto si verificarono profonde divergenze: tra una linea più radicale che sosteneva la partecipazione democratica diretta, portata avanti da Isolotto, Sorgane e noi, e una linea più accomodante e frenante che voleva evitare lo scontro con Palazzo Vecchio. Anche se tutti concordavano sulla necessità di una riconversione dei comitati di quartiere in Comitati per la ricostruzione.
Fin dalla sua costituzione, dunque, il Coordinamento portava in germe le premesse di una sua rapida crisi, che esplose quando cominciò a definirsi in termini più decisi la proposta di aprire una grande vertenza sulla casa, con manifestazioni di piazza e requisizione di alloggi, scontro dichiarato con la giunta di Palazzo Vecchio uscita dalle elezioni di primavera di quello stesso anno liquidando l’esperienza La Pira. La questione della casa era anche per noi cruciale: nell’immediato, per far fronte alle esigenze dei più disastrati; in prospettiva, per un risanamento del quartiere e per impedire che della situazione approfittasse la speculazione edilizia. Firenze usciva dall’alluvione profondamente trasformata e con i poteri forti che avevano messo ancor più le mani sulla città. E lo sfascio del quartiere produceva anche uno sfascio del suo tessuto sociale: una emorragia, ora spontanea ora incoraggiata, verso le periferie. Lo denunciammo, cifre alla mano, nel primo numero di un Notiziario ciclostilato e distribuito capillarmente. Negli stessi giorni il Pci decise di astenersi nella votazione del bilancio comunale, salvando così la giunta Bargellini (e lasciando all’opposizione solo il Psiup); la cosa ebbe immediate ripercussioni nel Comitato di Coordinamento, che mise un freno alla lotta per la casa con il blocco della manifestazione; e fu per noi, ma non solo per noi, l’occasione di rivedere il nostro giudizio anche sul sindacato, sul cui appoggio contavamo. Il dibattito all’interno della sezione e con i dirigenti federali si fece aspro, ora l’accusa di “intellettuali” era rivolta a noi, ed era sinonimo di “estremisti”. Ci lasciò l’amaro in bocca, molto più di quanto non ci avessero gratificato gli apprezzamenti durante le visite di dirigenti nazionali, tra cui Luigi Longo, allora segretario nazionale del Partito, e Giancarlo Pajetta.
La commissione culturale si era intanto arricchita di nuove forze che approdavano alla politica proprio grazie alle esperienze maturate in mezzo al fango, alla rabbia, alla solidarietà. Organizzavamo incontri, gruppi di studio, assemblee affollatissime, un vero e proprio convegno sulla città e la sua vivibilità a cui dettero fattivi contributi gli architetti Campos Venuti e Edoardo Detti, il sociologo Ardigò, il dottor Luciano Gambassini direttore provinciale della Sanità, e a cui fece seguito un convegno sullo sport, con Artemio Franchi, Luciano Senatori, Arrigo Morandi, presidente nazionale dell’Uisp. Una iniziativa di cui sono sempre andata particolarmente fiera fu l’allestimento nella piazza del Mercato di Sant’Ambrogio dello spettacolo di Dario Fo Mistero buffo, gratuito e per tutti. Il quartiere rispose con una presenza massiccia e molto partecipe. Era cultura, grande cultura, e insieme controcultura, azione politica. Avevamo una grossa partecipazione anche a incontri meno festosi e più impegnativi, come quelli con Enrica Collotti Pischel sulla Cina o con Luigi Pintor. Non pensavamo ad andarcene e vivemmo il ’68 vero e proprio dall’interno del Partito e della Casa del popolo, partecipando alle manifestazioni e alle occupazioni del movimento.
Ma le tensioni crescevano. All’XI Congresso (gennaio 1966) la sinistra ingraiana, a cui facevamo riferimento, era stata battuta. E nonostante un certo fair play, le sanzioni non erano mancate: Pintor rimosso dalla direzione de ”L’Unità” e spedito in Sardegna; Rossanda rimossa da responsabile della Commissione culturale, Magri dalla Commissione di lavoro di massa, e lo stesso Ingrao dalla segreteria; Eliseo Milani, segretario della Federazione di Bergamo e Ninetta Zandegiacomo, sindacalista veneta, esclusi dal comitato centrale. Al XII Congresso – febbraio 1969, Pintor, Rossanda e Natoli non avevano votato in comitato centrale le tesi preparatorie – fu chiaro che ogni spazio si era chiuso. In giugno usciva, in edicola e con una tiratura di 75.000 copie, il n. 1 della rivista “Il Manifesto” diretta da Rossanda e Magri; qualche mese dopo, a un anno dall’occupazione militare della Cecoslovacchia che cancellò la Primavera di Praga, l’editoriale “Praga è sola” apriva il n. 4: il comitato centrale chiese la chiusura della rivista. Fui incaricata di partecipare all’incontro nazionale a Roma dove si sarebbe deciso il che fare e dove, unanimemente e affidandoci soprattutto all’ottimismo della volontà, confermammo l’intenzione di andare avanti: il comitato centrale successivo (24 novembre) decise la radiazione dei dissidenti accusati di frazionismo.
Ormai era scontro aperto, non solo dentro il Partito ma per noi anche nella Casa del popolo. Mandammo una lettera (sottoscritta da una ventina di iscritti al Pci e al Psiup, e il Consiglio della Casa del popolo sciolse la commissione culturale. Decidemmo di non rinnovare la tessera del Partito e ci costituimmo come “centro di iniziativa politica del Manifesto” in città: la presentazione al Palazzo dei congressi con Rossanda, Magri e Pintor (27 maggio 1970) fu memorabile. E provocò alcune radiazioni, tra cui quella di Mario Sabbieti già segretario del prestigioso Circolo di cultura. Per molti di noi il taglio fu liberatorio; per alcuni, invece, sofferto. Era comunque la continuazione logica di un impegno nell’azione e nel dibattito politico, di un modo di essere comunisti, che aveva segnato gli anni della nostra formazione. L’esigenza fortemente sentita di giustizia sociale; la critica radicale delle strategie, dei programmi, del modo di fare politica non solo delle classi al potere ma anche della sinistra storica; l’antiautoritarismo e l’esigenza di una democrazia dal basso; l’unità con i cattolici realizzata sul campo, nell’azione e nel confronto, alternativa a quella retorica sul dialogo che mascherava velleità d’intesa con la Dc; l’importanza del radicamento nel sociale e dell’unità fra intellettuali e operai; la cosiddetta pratica dell’obiettivo – tutto questo, insieme all’anti-imperialismo alimentato dalla guerra del Vietnam, costituivano una sorta di filo rosso che andava oltre le appartenenze.

La spinta determinante a far nascere Il Manifesto lo dette il ’68. Il PCI confermava la sua incapacità ad assumerla e assisteva inerte all’inesorabile declino della sua presenza laddove lo scontro sociale si faceva più forte: nelle fabbriche e nella Fgci. Così come, nonostante Praga, non avviava nessuna riflessione di fondo sul “campo socialista”. Il Manifesto rappresentò, fin dalla nascita, il tentativo di realizzare l’incontro e l’incrocio fra la tradizione del movimento operaio e la radicalità della critica anticapitalistica dei nuovi movimenti. I suoi fondatori hanno peraltro continuato a rivendicare “le sue radici fondamentali nel Pci, e segnatamente nella storia della sua componente di sinistra”, a opporre il rifiuto ad “annacquare l’identità del Manifesto in quella generica del ‘68” – cito per tutti Luciana Castellina nel numero speciale per i 35 anni del giornale. Con la consapevolezza però che senza una discontinuità radicale, senza una fuoriuscita, senza il coraggio di correre il rischio e rimettersi in gioco, questo incontro non ci sarebbe stato, non si sarebbero date le condizioni perché dei giovani senza alcuna storia politica scegliessero di percorrere questa strada piuttosto che altre, più semplificate e fascinose.
“Quello che i groppuscoli cominciavano a fare, più o meno bene, con le braccia, il manifesto voleva farlo con la testa. Non forme di movimento organizzato, ma modi di intelligenza praticata”, avrebbe riconosciuto Mario Tronti nella stessa occasione. Assumere questo – tardivo – riconoscimento da parte di chi è stato soggetto attivo sarebbe immodesto, e personalmente mi crea un certo imbarazzo. Diciamo che, proprio per la specificità della sua origine, il Manifesto, oltre all’aspirazione a non restare un’avanguardia minoritaria, tentò di sottrarsi a una logica di radicalizzazione del rifiuto e a un atteggiamento sommariamente liquidatorio dominanti nella nuova sinistra. E si fece carico di due problematiche ineludibili in una prospettiva rivoluzionaria: il disastroso fallimento della Rivoluzione d’Ottobre e la crisi di un modello di socialismo (ricordo in particolare il Convegno sulla dissidenza a Venezia); la crisi della forma Partito e la necessità di elaborare nuove forme organizzative, oltre che nuove forme di lotta (si rilegga la conversazione di Rossanda con Sartre, sul numero di settembre ’69 della rivista e ora riproposta nel volume Quando si pensava in grande). È con queste problematiche che doveva intrecciarsi, almeno nelle aspirazioni e nelle intenzioni, la necessaria riflessione sulle tendenze del neocapitalismo e sulla elaborazione, teorica e nella prassi, di un modello di sviluppo alternativo fondato su contenuti più radicalmente liberatori e su nuove alleanze politiche e sociali.
Le implicazioni non erano di poco conto e stare nel movimento, già frazionato in gruppi dogmatici o ultraspontaneisti, non fu facile. Presenti e attivi lo eravamo sempre, anche non settari. E avevamo fatto un debutto alla grande nell’occupazione del Rettorato, dove con un viaggio lampo portammo direttamente da Parigi un simpatico occupante del Teatro dell’Odéon. Ma molto spesso venivamo trattati con diffidenza, se non irrisi: la nostra provenienza bastava a bollarci come “destri”, nella migliore delle ipotesi come “sinistra esterna del Pci”. Eppure le nostre “Tesi per il comunismo”, presentate nel 1970 proprio per offrire una piattaforma unitaria alla nuova sinistra, non facevano concessioni sul giudizio che una fase del capitalismo fosse in via di esaurimento e che dentro il suo orizzonte non sarebbe stato possibile alcun progresso civile. Ma l’assunto di una “maturità del comunismo” non aveva per tutti lo stesso significato: molti lo interpretavano come la rivoluzione a portata di mano. Meno tesi erano i nostri rapporti con i giovani della Fgci, in cui era presente quella vivace componente di studenti radicati nelle scuole e nelle facoltà che aveva dato vita all’Ugs (Unione gruppi studenteschi) e che confluì in gran parte nel Manifesto: tra questi, Pier Lorenzo Tasselli, membro della segreteria provinciale. Anche l’occupazione della Facoltà di architettura (1971) rappresentò una delle più significative e meno conflittuali esperienze di organizzazione del movimento e di confronto tra gruppi. Ma in quel momento prevaleva un po’ per tutti l’esigenza di un’organizzazione interna, più o meno aperta verso gli altri. E anche noi – forti di una diffusa presenza e di un’elaborazione teorica espressa nelle “Tesi sulla scuola” del gennaio ‘70 nonché nel convegno di maggio “Scuola, sviluppo capitalistico, alternativa operaia e studentesca” – costituimmo, nella nostra sede in via Mozza, una “commissione studenti medi” e “nuclei” di facoltà: il più importante, anche per la rete nazionale, fu indubbiamente quello di Medicina ma avevamo presenze significative anche a Giurisprudenza e a Filosofia. Saremmo poi stati fra i primi, insieme all’Isolotto, ad avere un collettivo femminista.
A livello nazionale, l’accelerazione organizzativa – impressa dalla base, da questa sua ramificazione – oltre che a una richiesta di identità, rispondeva alla necessità sentita come non procrastinabile di dare una formazione politico-culturale al movimento, per frenarne le spinte estremiste che non aiutavano nella difficile operazione di tenere insieme lotte studentesche e operaie. La trasformazione della rivista in quotidiano, il cui primo numero uscì il 28 aprile 1971 con una tiratura di 100.000 copie (la media di vendite nel primo anno si attestò sulle 40.000), rispondeva appunto all’esigenza di accelerare lo sviluppo politico dell’organizzazione. Lo spirito e la direzione erano esplicitati nella definizione di “quotidiano comunista” aggiunta al nome della testata “Il Manifesto”. Una sfida a tutto campo, quella di proclamarsi comunisti malgrado il Pci e l’Urss, e interni alla vicenda del comunismo italiano. Diretto da Luigi Pintor, con stipendi uguali per tutti e uguali allo stipendio operaio, era il primo quotidiano italiano autogestito e autofinanziato: lo rese possibile una sottoscrizione tra militanti di 47 milioni (sarebbe stata solo la prima di una serie ininterrotta). La reazione immediata del Pci fu un velenoso corsivo su “L’Unità” : “Chi li paga?”. Già colto impreparato dall’esplosione dei movimenti, il Partito continuava a negarne la rilevanza e la complessità, preferendo volgari insinuazioni e trite semplificazioni a una più impegnativa analisi delle diversità che percorrevano le tante anime del movimento.
Gli articoli sulle diverse realtà locali erano assicurate da una rete di volontari; io mandavo le corrispondenze da Firenze. E anche quella fu un’esperienza importante. Perché la notizia non arriva se non si è efficaci e sintetici nella comunicazione, e non si dà notizia senza interpretazione, non fosse altro per la scelta delle parole e del tono. Così le collaborazioni al giornale diventavano anche occasioni di chiarimento sulla linea politica. L’episodio su questo piano più significativo fu quando il 7 luglio del ’71 mandai un articolo in cui annunciavo trionfalmente l’occupazione della Regione toscana. Venne pubblicato in prima pagina, senza che ne fosse modificata una virgola e con un titolo che certo non ne attenuava il tono: “Le bandiere rosse dei senza casa sulla sede della regione”. Ma Pintor mi chiese se potevo fare un salto a Roma. L’indomani, in redazione, scrissi un secondo articolo in cui raccontavo come fossimo stati sloggiati, pacificamente ma con inequivocabile fermezza, dagli operai della Galileo spediti dal Partito; lui mi dette una lezione di scrittura che non ho mai dimenticato, mentre Rossanda severamente sconcertata mi chiese che cosa mai ci fosse passato per la testa, e Parlato avviava una dura e ragionata analisi delle forme di lotta per la casa, delle posizioni del Pci, del ruolo degli enti locali nella strategia delle riforme. Era vero che non avevamo le idee molto chiare e ci eravamo lasciati trascinare da quelle che si presentavano come le “avanguardie” della lotta dei senza casa. Come se non bastasse, la sera stessa arrivava la notizia dell’aggressione a Ernesto Ragioneri nell’aula in cui faceva lezione, rivendicata da Lotta continua. La posizione del giornale, come del resto quella del centro fiorentino, fu netta e decisa: mentre si avviava un’indagine interna per verificare se qualcuno avesse preso parte all’azione, tutti gli altri gruppi si scatenarono in comunicati che accusavano il giornale e noi di divisione del movimento, delazione, settarismo e disimpegno opportunista (“Il Manifesto”, 9 e 11 luglio). Fu un brutto momento, che tuttavia contribuì a fare chiarezza: si aprì un dibattito sulle strategie di lotta, in città con gli operai della Stice e con il Psiup, e sul giornale a partire da un fondo di Magri (14, 20, 21, 23 luglio con un intervento di Antonio La Penna). Ma il giornale era anche uno strumento prezioso per qualificare la nostra presenza e tessere rapporti: nelle scuole, in particolare fra gli insegnanti, fatti oggetto di procedimenti disciplinari (uno dei primi casi fu all’Istituto Genovesi) e giudiziari (il più clamoroso, il processo agli insegnanti del Liceo scientifico Leonardo da Vinci che avevano scioperato dopo uno dei tanti interventi della polizia in cui alcuni studenti erano stati arrestati); con il sindacato Cgil scuola, gli avvocati del Soccorso rosso e Magistratura democratica; con gli operai delle fabbriche in lotta e con comunità di base (in particolare l’Isolotto, di cui seguimmo il processo, così come quello a don Borghi per vilipendio alla Magistratura, entrambi del giugno ‘70).
Nel maggio del ’72 il Manifesto rompeva con il tabù extraparlamentare e si presentava alle elezioni politiche candidando Pietro Valpreda, l’anarchico in carcere da tre anni senza processo con l’accusa di aver messo le bombe in piazza Fontana. Rimase un bel gesto e fu dunque un errore politico: prendemmo 223.789 voti, un clamoroso insuccesso (anche se Valpreda tornò libero a fine anno, con una legge specifica). E aveva provocato un intenso travaglio interno, compresa la rottura pubblica del gruppo dirigente. Una decina di giorni dopo, Il 17 maggio, un commando uccideva il commissario Calabresi, che aveva indagato sulla strage e interrogato l’anarchico Pinelli, precipitato dalle finestre della questura durante un interrogatorio. Pur senza rivendicarla, alcuni gruppi della sinistra videro in questo atto una celebrazione della “giustizia proletaria”. Il giornale uscì con un editoriale (21 maggio), tanto coraggioso quanto impietoso e ostico, a firma di Rossana Rossanda dal titolo “Riflessioni impopolari sull’omicidio politico”. Chiamando direttamente in causa Lotta continua e richiamandosi a Lenin, Rossanda denunciava una regressione del movimento in forme politiche spurie, pre-marxiste, mutuate dalla tradizione politica della classe dominante. Oltre a Lotta continua, colpiva una dimensione culturale diffusa che legittimava l’omicidio politico, o quantomeno simpatizzava, anche all’interno dello stesso Manifesto. In qualche modo anticipava lucidamente la frattura nel movimento sull’”uso della forza” e la sconfitta di coloro che decisero d’impiegarla decidendo senza mandato di essere “soggettività comunista combattente”. Ma non fu una presa di posizione indolore, né all’interno del movimento né al nostro interno.
Furono le lotte operaie per il rinnovo dei contratti a ridarci unità, vigore e identità. Per noi era un terreno decisivo, che ancora una volta ci vedeva polemici sia con il Pci e il sindacato che tentavano di presentare la scadenza contrattuale come un fatto fisiologico, sia con i gruppi della nuova sinistra ai cui occhi i contratti erano una scadenza padronale e le lotte operaie dovevano essere programmate su altri terreni e con altri tempi. Contro le teorizzazioni dell’operaio-massa e contro il radicale rifiuto della delega, ci impegnammo a tutti i livelli per dare valenza politica ai Consigli di fabbrica, ci arricchimmo di bravissimi quadri operai (anche a Firenze) e segnammo una presenza significativa nelle strutture del Sindacato, in particolare della Fiom di cui sostenemmo la piattaforma proposta da Trentin a Genova nel ’73.
Ma fuori da questo terreno, mantenere – forse avere – una rotta chiara, ferma e condivisa si dimostrava sempre più difficile. Il terreno più scivoloso era quello delle alleanze e delle aggregazioni sollecitate dalla necessità di ricompattarsi per condurre un’opposizione incisiva e urgente. Soprattutto quando ci trovammo a fare i conti con la proposta del “compromesso storico” avanzata da Enrico Berlinguer, che interpretava la lezione cilena come prova dell’impossibilità per la sinistra di accedere al governo senza allearsi con la Dc. Dopo un precedente tentativo di aggregazione con Potere operaio (inverno 1971) – non condiviso dall’intero gruppo dirigente nazionale, poco convincente anche agli occhi di gran parte dei militanti, e immediatamente naufragato – nel luglio ’74 si approdò alla costituzione del Partito di unità proletaria per il comunismo, attraverso l’unificazione con il Pdup. Il progetto era indubbiamente molto ambizioso: mirava a costruire una forma organizzativa che tenesse insieme gli eredi delle due tradizioni storiche del movimento operaio, comunista e socialista, una qualificata presenza di cattolici, giovani leve formate nelle lotte e nelle culture del ’68, e una già combattiva avanguardia del neofemminismo – con cui il Manifesto, che ne viveva al suo interno la forza d’urto, provava per primo a fare i conti. Ma era anche una scommessa. Che perdemmo. Forse perché era davvero un’impresa impossibile. O perché non avevamo tratto le necessarie conseguenze dalle analisi sartriane sulla crisi storica della forma partito. Ci dividemmo già al I° Congresso, nel novembre dell’anno dopo, dove si arrivò con due mozioni – una presentata da Magri e Rossanda, l’altra da Vittorio Foa, Silvano Miniati e Giangiacomo Migone – e dove l’assemblea dei delegati si spaccò a metà, anzi in tre giacché 38 voti andarono alla proposta di Pintor di astenersi. Le divisioni si fecero sempre più dolorose e i prezzi pagati furono alti: la scritta “quotidiano comunista” sopra la testata del giornale fu sostituita con “unità proletaria per il comunismo“, Pintor ne abbandonò la direzione e Natoli cessò la sua collaborazione.
Firenze fu un luogo importante in questa operazione e nei suoi travagliati sviluppi. Per la ragione che ricordavo inizialmente, di una tradizionale forte presenza della sinistra socialista che aveva dato vita a una delle più agguerrite federazioni del Pdup (guidata da Guido Biondi, poi da Miniati), e anche per la consistenza di una componente del Manifesto decisa, con Lucio Magri, a perseguire una organizzazione politica, radicata nelle lotte, forte nel sindacato e rappresentata nelle istituzioni. Ma non potrei essere io a parlarvene, perché anch’io mi allontanai e mi separai dai compagni, chiudendo un’intensa decennale esperienza di militanza attiva. Solo qualche anno più tardi fui sollecitata a riprendere la collaborazione col giornale, questa volta sulle pagine culturali. Non mi sembrò affatto un ripiego, al contrario; mi appassionai e ritrovai una comunità. Era l’autunno del ’77 e dal mese di marzo “Il Manifesto” aveva ripreso la sua autonomia e la sua testatina originaria, Pintor era tornato, e anche Natoli, mentre Rossanda e Parlato avevano scelto di impegnarsi a tempo pieno nella redazione, dove nel frattempo era arrivata la generazione del ’68 e del femminismo.

comunicazione effettuata in occasione del convegno "Tra memoria e storia. Il Movimento Studentesco Fiorentino (1971-1978)" (9-10.5.2014)

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