A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

lunedì 3 febbraio 2014

A proposito di legge elettorale, la legge Acerbo

di Tony Rusty

In queste convulse settimane di dibattito politico l’attenzione dell’opinione pubblica è stata catalizzata dalla proposta di riforma della legge elettorale vigente, il cosiddetto “porcellum” (approvato dalla coalizione di centro-destra nel 2005), sulla quale si è recentemente espressa la Corte costituzionale che ha dichiarato il contrasto con la legge fondamentale di due aspetti qualificanti della normativa (il premio di maggioranza e le liste bloccate).
La discussione è aperta e la proposta di riforma, scaturita da un accordo tra i vertici di Partito Democratico e Forza Italia, ha già subito alcuni correttivi rispetto alla formulazione iniziale. In estrema sintesi il meccanismo proposto innesta sulla base proporzionale un significativo premio di maggioranza a favore della lista che superi una soglia percentuale di voti raccolti a livello nazionale (al momento il 37%); nel caso in cui nessuna lista raggiunga tale soglia, la proposta prevede un secondo turno di ballottaggio tra le due liste più votate a livello nazionale al fine di assegnare il premio di maggioranza. Le liste sono bloccate e vengono individuate alcune soglie (almeno il 4,5% dei voti) affinché le liste che si presentano abbiano diritto alla ripartizione dei seggi.
La proposta, che secondo alcuni sondaggi pare suscitare largo consenso tra i cittadini, dovrà naturalmente essere vagliata e approvata da entrambi i rami del Parlamento: l’esame alla Camera è appena iniziato.
Ovviamente non mancano le discussioni, tra le forze politiche e tra gli esperti. Nel dibattito è ricorrente il richiamo alla cosiddetta “legge truffa”, ovvero alla normativa elettorale che nel 1953 modificò la legge elettorale proporzionale dell’epoca inserendo un premio di maggioranza alla lista che avesse raggiunto il 50,01% dei voti: una norma che fu molto contestata e che peraltro fu abrogata nel 1954.
In realtà la vicenda dei sistemi elettorali in Italia è abbastanza complessa, ed in particolare l’innesto del premio di maggioranza su un impianto di tipo proporzionale fu introdotto per la prima volta nel Parlamento del Regno d’Italia con la legge 18 novembre 1923, n. 2444, passata alla storia con il nome del suo estensore, Giacomo Acerbo. Anche questa normativa ebbe vita breve, in quanto sostituita dapprima con una legge che reintroduceva i collegi uninominali (1925) – peraltro rimasta inapplicata – e successivamente (1928) con un sistema che fu definito già all’epoca “plebiscitario” giacché escludeva la competizione tra forze contrapposte.
Poiché, nonostante ciò che spesso in questa fase politica convulsa viene sostenuto, conoscere gli eventi della nostra storia è indispensabile per capire il nostro presente ed affrontare consapevolmente il nostro futuro, può essere utile ripercorrere in quale contesto e come si arrivò alla Legge Acerbo. In questo ci può essere di aiuto la rilettura di quegli eventi: abbiamo scelto alcuni brani tratti dal nono volume della monumentale “Storia dell’Italia Moderna” di Giorgio Candeloro, che ci sono apparsi ancora vivi e attuali.

Per saperne di più:
> sul “porcellum”
-    sintesi sul portale storico della Camera dei Deputati
-    il testo del “porcellum”
-    la sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014
> sulla Legge Acerbo
-    sintesi sul portale storico della Camera dei Deputati
-    il testo della Legge Acerbo
-    la storia della Legge Acerbo nel portale “Alcide De Gasperi nella storia d’Europa”
-    “Le dichiarazioni dell'on. De Gasperi nella Commissione elettorale”, da «Il nuovo Trentino» (19 giugno 1923)
-    “Quando il proporzionale viene forzato: il premio di maggioranza”, note di Giulia Pezzella su Treccani.it


stralci tratti daGiorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna: il fascismo e le sue guerre”, vol.9, Feltrinelli, 1981 – pagg. 33-68
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La riforma elettorale, non compresa (sembra per volontà del re) nella delega data al governo con la legge sui pieni poteri, fu l’unico problema importante discusso dal Parlamento nel 1923. Fin dalla prima riunione informale del Gran Consiglio del 15 dicembre 1922 i capi fascisti decisero in linea di massima che la nuova legge elettorale si sarebbe ispirata al principio maggioritario; tuttavia ancora per qualche mese non vi fu accordo tra di essi su questo punto. Infatti Farinacci, prima e dopo quella seduta, propose un ritorno al collegio uninominale, mentre Michele Bianchi sostenne la tesi maggioritaria proponendo che i due terzi dei seggi (in un secondo tempo disse addirittura i tre quarti) fossero attribuiti alla lista che avesse ottenuto in tutta l’Italia  il maggior numero di voti e che i seggi restanti fossero distribuiti tra le altre liste in base alla proporzionale. Soltanto il 25 aprile il Gran Consiglio scelse definitivamente tra le due proposte approvando la tesi maggioritaria con 21 voti favorevoli, 2 contrari e 2 astenuti. Mussolini incaricò quindi Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, di elaborare il progetto di legge, che fu presentato alla Camera il 9 giugno 1923. Il progetto Acerbo prevedeva l’adozione del principio maggioritario nella misura dei due terzi ed assegnava pertanto 356 seggi alla lista che avesse ottenuto nel collegio unico nazionale il maggior numero di voti e 179 seggi alle liste rimaste in minoranza da ripartire in base alla proporzionale. Il collegio unico nazionale doveva servire soltanto per stabilire quale fosse la lista di maggioranza ed era diviso in 16 circoscrizioni territoriali agli effetti della presentazione delle liste dei candidati e della ripartizione dei seggi tra le liste di minoranza.
Il progetto Acerbo era in contrasto con la tendenza favorevole al ristabilimento del collegio uninominale, prevalente tra i gruppi liberal-democratici, che appoggiavano il Governo Mussolini. Questi gruppi però erano ostili alla proporzionale e disposti a dare a Mussolini la possibilità di contare su di un’ampia e stabile maggioranza parlamentare, almeno per la durata di una legislatura, perciò mostrarono di essere disposti a votare in favore del progetto stesso. Diverso l’atteggiamento e diversa la posizione dei popolari, che avevano sempre considerato il conseguimento e poi la conservazione della proporzionale un caposaldo del loro programma e che si trovarono a dover prendere in quel momento una decisione importantissima per le sorti del loro partito e dell’Italia. Infatti se i deputati del PPI avessero deciso di votare compatti contro la legge, l’approvazione di questa sarebbe stata assai incerta, poiché era sicura l’opposizione dei due partiti socialisti, dei comunisti e dei repubblicani ed era possibile che alcuni deputati democratici, ancora indecisi ed esitanti, decidessero di votare anche loro contro la legge e facessero pendere la bilancia in favore delle opposizioni. Divenne quindi una questione essenziale per Mussolini che i deputati popolari non votassero contro la legge o almeno si dividessero nella votazione.
Si deve ricordare a questo punto che fin dai primi mesi di governo Mussolini aveva iniziata una complessa azione mirante ad indebolire e scompaginare il partito popolare. Questo non solo in vista della riforma elettorale, ma anche e soprattutto per lo scopo più generale di eliminare una grossa forza politica democratica, ostile all’accrescimento del suo potere personale, che rappresentava, in concorrenza col fascismo, grandi masse di contadini e larghi settori di piccola e media borghesia. In particolare Mussolini si propose da un lato di guadagnare il favore del Vaticano, in modo che questo, soddisfatto dal governo fascista con varie concessioni, non giudicasse più necessaria in Italia la presenza di un partito cattolico e incoraggiasse l’ala destra del PPI a staccarsi dal partito stesso e ad impegnarsi apertamente in favore della politica mussoliniana; dall’altro lato il duce mirò a privare il partito popolare della sua base di massa tollerando e di fatto incoraggiando le intimidazioni e le violenze squadristiche con le organizzazioni periferiche del partito, contro i sindacati bianchi e contro le altre organizzazioni sociali cattoliche.
Un momento importante del primo aspetto di questa duplice azione fu un colloquio segreto tra  Mussolini e il Segretario di Stato, cardinal Gasparri, avvenuto su richiesta del primo il 20 gennaio 1923 in casa del conte Carlo Santucci, senatore, Presidente del Banco di Roma, e autorevole rappresentante dell’ala destra del PPI. Secondo fonti attendibili, i due interlocutori, dopo un esame generale della situazione, convennero che non era opportuno per il momento “affrontare in pieno la questione romana”, ma che bastava “per un tempo più o meno lungo rendere riguardosi e benevoli i rapporti tra il Vaticano e il Governo italiano”. Affrontarono inoltre il problema del Banco di Roma, che si trovava in difficoltà gravi per l’effetto concomitante della crisi bancaria del 1921-22 e di numerose operazioni sbagliate. Mussolini si impegnò allora a portare avanti l’azione di salvataggio del Banco, già iniziata dal Governo italiano alcuni mesi prima, ed è probabile che ottenesse in cambio dal cardinale Segretario di Stato l’assenso a procedere alla sostituzione dei dirigenti del Banco. Infatti poche settimane dopo il Santucci e Giuseppe Vicentini furono sostituiti nelle cariche rispettivamente di Presidente e di Amministratore delegato del Banco da Francesco Boncompagni Ludovisi, principe romano, deputato (uscito dal PPI nell’estate del 1922), e da Carlo Vitali, Direttore del Credito Commerciale Cremonese.
Questo mutamento nelle cariche direttive dell’importante istituto bancario, cui facevano capo grossi interessi del Vaticano e di gran parte della borghesia cattolica italiana, fu un colpo per il partito popolare, sia perché il Vicentini era ad esso assai legato, particolarmente al centro sturziano, sia perché il Banco di Roma controllava il trust dei giornali cattolici, fondato nel 1908 dal conte Giovanni Grosoli (anch’egli per molto tempo vicepresidente del Banco), e controllava anche il Corriere d’Italia, il quotidiano romano che nell’ambito del trust aveva una certa autonomia. Questo giornale aveva da tempo assunto una atteggiamento filofascista, che accentuò nei mesi successivi. Si deve ricordare d’altra parte che proprio allora il partito popolare si diede un giornale quotidiano: il 5 aprile 1923 cominciò la pubblicazione de Il Popolo, diretto da Giuseppe Donati, proveniente dalla Democrazia cristiana dell’anteguerra e decisamente antifascista.
La sensazione che l’esistenza del PPI fosse minacciata dalla politica mussoliniana, nonostante la presenza nel Governo di ministri popolari, si andava facendo frattempo sempre più viva all’interno del partito stesso. …
Ma questa battaglia per salvare il PPI dall’assorbimento da parte del fascismo e dalla dissoluzione, che Sturzo condusse coraggiosamente nel 1923, fu osteggiata dagli uomini dell’ala destra del partito, i quali miravano a conservare e rafforzare la collaborazione governativa e quindi tentarono, senza riuscirvi, di rinviare la convocazione del IV Congresso del partito stesso, da cui temevano sarebbe venuta fuori una presa di posizione anticollaborazionista. Erano su questa linea Stefano Cavazzoni, Ministro del lavoro, il deputato Egilberto Martire, il senatore Cesare Nava, ex Ministro e Presidente del Banco Ambrosiano, ed altri. Sturzo, per parte sua, si preparò ormai deciso a “disincagliare” il partito dalla collaborazione governativa, a dar battaglia nel congresso, che fu convocato a Torino per il 12 maggio 1923. Ma alla vigilia del congresso un ordine del giorno firmato da uomini della destra, tra i quali Nava e Martire, affermò che la collaborazione del PPI al governo poteva avere efficacia soltanto se esso si fosse liberato di quelle frazioni che tendevano ad “una solidarietà coi partiti demagogici” in contrasto con la necessità “di una ricostruzione nazionale fondata sulla pacificazione delle classi e il rispetto delle istituzioni unitarie del Paese”. Questa richiesta di espulsione delle correnti di sinistra fu bene accolta dal centro-destra del partito, rappresentato da uomini autorevoli e graditi al Vaticano, come Giovanni Grosoli, Edoardo Soderini, Giovanni Maria Longinotti, Paolo Mattei-Gentili. Minore influenza ebbe invece l’appello a costituire un’Unione nazionale tra i cattolici che non intendevano più far parte del PPI e desideravano affiancare “i partiti nazionali”, lanciata dal deputato Carlo Ottavio Cornaggia, da tempo uscito dal partito.
Nonostante queste prese di posizione, Sturzo ottenne un notevole successo con la relazione che fece al congresso di Torino, in cui riaffermò il carattere peculiare e le finalità specifiche del PPI come partito dei cattolici italiani. Egli auspicò che la politica ecclesiastica del Governo Mussolini potesse “portare del bene alla Patria nostra, e preparare, se non risolvere, il problema dei rapporti pubblici tra lo Stato e la Chiesa cattolica romana”, ma negò che potesse trovarsi identità di vedute e uguaglianza di posizione tra i presupposti programmatici del PPI e quelli di altri partiti. Pertanto il compito generale del PPI fu da lui fissato in questi termini: “realizzare il programma nostro in antitesi al liberalismo laico, al materialismo socialista, allo Stato panteista e alla nazione deificata, che formano nel loro complesso la grande eresia che abbiamo ereditato dal secolo XIX e che giganteggia negli spasimi del dopoguerra”. Alla prospettiva di una convergenza dei cattolici nel fascismo, da cui la Chiesa poteva trarre vantaggi molto consistenti, egli contrappose quindi la prospettiva più lontana di una riconquista della società italiana all’ideologia cattolica e di una riforma dello Stato secondo il programma popolare. Egli cercò d’altra parte di frenare le tendenze scissionistiche della destra sostenendo che la politica sociale dei popolari aveva lo scopo di “immunizzare le masse stesse dalla propaganda bolscevica”, affermando che la politica agraria del PPI aveva mirato all’incremento della piccola proprietà e alla trasformazione del salariato in partecipazione e dicendo che i popolari approvavano in gran parte l’opera del Governo Mussolini, ma dissentivano dai metodi illegali e violenti dei fascisti e chiedevano il rispetto della Costituzione. Questo sforzo ebbe un risultato positivo per l’unità del partito, almeno per il momento, perché l’ordine del giorno presentato da Sturzo, che riassumeva i temi generali della relazione, fu approvato a maggioranza con i voti favorevoli della destra e l’astensione della sinistra.

Subito dopo il congresso di Torino, Mussolini, che sembra avesse sperato che la tesi della destra avrebbe finito per prevalere, decise di prendere l’iniziativa di rompere la collaborazione coi popolari. Il 17 aprile convocò infatti a Palazzo Chigi i popolari membri del Governo, il Ministro Cavazzoni e i sottosegretari Gronchi, Milani e Vassallo, li ringraziò per l’opera prestata e restituì loro “ampia libertà d’azione e di movimento”. Cavazzoni mise a disposizione del Presidente del Consiglio il suo portafoglio e quelli dei suoi colleghi aggiungendo però che il partito popolare desiderava in maggioranza continuare la collaborazione con Governo. Mussolini si riservò quindi una decisione definitiva in attesa della riunione del gruppo parlamentare popolare convocata per il 20 aprile. Questa riunione approvò con 70 voti favorevoli, 10 astenuti e uno contrario un ordine del giorno che, senza respingere apertamente le deliberazioni del congresso di Torino, tendeva ad accentuarle in senso collaborazionista, perché ammetteva tra l’altro che il problema della riforma elettorale dovesse essere affrontato “coordinandolo alle supreme esigenze del Paese”. Mussolini però rispose tre giorni dopo affermando che quel documento “non modificava il fondo del congresso di Torino essenzialmente antifascista” e dichiarando di accettare le dimissioni dei popolari membri del Governo.
Dopo l’estromissione dei popolari dal Governo, mentre si accrescevano le violenze squadristiche contro le organizzazioni popolari e cattoliche e si avevano nuove manifestazioni scissionistiche da parte della destra del PPI, la stampa fascista e filofascista scatenò una campagna contro don Sturzo, che il 15 maggio era stato riconfermato segretario politico del Consiglio nazionale popolare. Scopo della campagna era quello di ottenere che Sturzo, deciso sostenitore della proporzionale, si dimettesse dalla carica prima della discussione del progetto Acerbo alla Camera. Per intimorire il Vaticano o comunque spingerlo ad intervenire contro il segretario popolare si fecero diffondere voci di prossime violenze squadristiche, che avrebbero coinvolto addirittura le parrocchie. I giornali della destra popolare appoggiarono le manovre: il Corriere d’Italia pubblicò un articolo di monsignor Enrico Pucci che invitava don Sturzo a non creare imbarazzi alla Santa Sede. Mancò allora da parte degli altri dirigenti del PPI una decisa azione in favore di Sturzo, che il 10 luglio comunicò al Consiglio nazionale del PPI la sua decisione di dimettersi dalla carica di segretario politico. Fu sostituito da un triumvirato costituito da Giulio Rodinò, presidente, Giovanni Gronchi, segretario, e Giuseppe Spataro, vicesegretario. Lo stesso giorno iniziò alla Camera la discussione della legge Acerbo.
Precedentemente, per quasi un mese il progetto di riforma elettorale fu discusso da una commissione di diciotto deputati, che si divise nel modo seguente. Approvarono il progetto: Giolitti, Orlando, Salandra, Casertano, Fera, Grassi, Lanza di Scalea, Orano, Paolucci, Terzaghi; furono contrari: Bonomi, Chiesa, De Gasperi, Falcioni, Graziadei, Lazzari, Micheli, Turati. La relazione di minoranza fu preparata da Bonomi e dal popolare Micheli. Nella prima giornata della discussione in aula, Gronchi, a nome del gruppo popolare, chiese al Governo di accettare una proposta, fatta pochi giorni prima da De Gasperi, ma già respinta da Mussolini, in base alla quale i popolari avrebbero votato a favore della legge se il Governo avesse accettato di stabilire un quorum del 40% per la lista di maggioranza, e di dare a questa il 60% dei seggi invece del 66%. Rimasta senza seguito questa proposta, la discussione si svolse nei giorni successivi in un’atmosfera di tensione, che fu attenuata improvvisamente il 15 luglio da un discorso di Mussolini di tono moderato, nel quale peraltro non mancò la minaccia di uno scioglimento della Camera. Quel discorso comunque attirò alla tesi governativa parecchi deputati incerti e facilitò la disgregazione del gruppo popolare da parte dei deputati della corrente filofascista. Infatti in una riunione del gruppo, presenti 80 deputati, con 41 voti contro 39 si decise che i popolari si sarebbero astenuti nella votazione sul passaggio alla discussione degli articoli del disegno di legge Acerbo. Si svolse quindi in aula la votazione di un ordine del giorno Larussa, accettato dal Governo, che diceva: “la Camera, confermando la sua fiducia al Governo, approva i principi della riforma elettorale e passa alla discussione degli articoli”. Su richiesta di De Gasperi, l’ordine del giorno fu diviso in due parti, che furono votate separatamente: sulla fiducia al Governo i voti favorevoli furono 303, i contrari 140; sull’approvazione dei principi della riforma i favorevoli furono 235, i contrari 139, gli astenuti 77. Ma non tutti i popolari si astennero, perché un gruppo di 9 deputati, guidati da Cavazzoni, che fece aperta dichiarazione di voto, approvò l’ordine del giorno, in contrasto con quanto era stato dichiarato dallo stesso Cavazzoni nella riunione del gruppo. Uno, l’on. Merizzi, votò contro; qualche altro si allontanò dall’aula al momento della votazione. Durante la discussione degli articoli fu presentato da Bonomi un emendamento, che fissava al 33% il quorum per ottenere la maggioranza. Ma l’emendamento fu respinto con 178 voti contro 157 e fu accettato il quorum del 25%, proposto dal Governo. Infine il 23 luglio la legge nel suo insieme fu approvata a scrutinio segreto con 223 voti favorevoli e 123 contrari. Giovanni Amendola, che aveva pronunciato nella discussione generale un forte discorso contro la legge, ma che poi si era astenuto nella votazione dell’ordine del giorno Larussa, annunciò il suo voto contrario nella votazione finale.
Frattanto la presidenza del gruppo popolare, d’accordo con la segreteria del partito, aveva deciso l’espulsione dal gruppo dei deputati Cavazzoni, Ferri, Marino, Martire, Mattei-Gentili, Mauro, Roberti, Signorini e Vassallo. Questa decisione fu approvata dal Consiglio nazionale del PPI, che decise di radiare dall’elenco dei giornali aderenti al partito il Corriere d’Italia, diretto da Mattei Gentili. Pochi giorni dopo si dimisero dal partito stesso i senatori Crispolti, Grosoli, Passerini, Sanjust di Teulada e Santucci. In pratica tutta la corrente clerico moderata, della quale facevano parte uomini, come il Crispolti, il Grosoli e il Santucci, che godevano la piena fiducia della Santa Sede, si distaccò dal partito popolare, che uscì dunque assai malconcio e indebolito dalla battaglia sulla riforma elettorale. Questa fu poi approvata anche dal Senato il 14 novembre 1923 con 165 voti favorevoli e 41 contrari e pubblicata quattro giorni dopo. L’11 dicembre i lavori parlamentari furono aggiornati e il 25 gennaio 1924 fu emanato il decreto di scioglimento della Camera. Le elezioni generali furono indette per il 6 aprile 1924.

Alla vigilia delle elezioni del 1924 la situazione economica presentava nel complesso molti aspetti favorevoli per la borghesia italiana, dovuti in parte alla congiuntura economica generale e in parte alla politica finanziaria, economica e sindacale del Governo fascista. Era naturale quindi che questa situazione facilitasse la propaganda fascista e che si accrescesse la disponibilità di una parte dei gruppi liberaldemocratici borghesi ad appoggiare il Governo fascista nella lotta elettorale. A favore del fascismo giocarono anche alcuni risultati della politica estera, in particolare l’accordo stipulato a Roma il 27 gennaio 1924 tra Mussolini e il Presidente del Consiglio jugoslavo Pašić, in base al quale Fiume fu assegnata all’Italia e una parte del territorio fiumano con Porto Baross fu assegnata alla Jugoslavia. Veniva sanzionata così una situazione di fatto già esistente, poiché lo Stato libero fiumano, anche dopo la fine nel governo dannunziano, era in pratica controllato dall’Italia; ma l’accordo, a cui si aggiunse la firma di un trattato quinquennale di amicizia tra i due Paesi, poté essere presentato come un grosso successo di Mussolini, a cui fu attribuito il merito di aver concluso favorevolmente l’annosa questione fiumana.
La politica economica e la politica estera contribuivano insomma a confermare l’immagine di un fascismo moderato, tendente ad inserirsi in una linea tradizionale di prudente conservatorismo sociale e di equilibrata tutela degli interessi nazionali. Si comprende quindi che le speranze di normalizzazione del fascismo si andassero rafforzando negli ambienti liberali, nonostante il persistere ed anzi l’accentuarsi delle violenze squadristiche: basta ricordare l’assassinio dell’arciprete di Argenta, don Giovanni Minzoni, compiuto da uomini delle squadre di Italo Balbo il 24 agosto, e la bastonatura di Giovanni Amendola, avvenuta a Roma il 26 dicembre. Era diffusa infatti nei gruppi fiancheggiatori l’idea che queste violenze avvenissero in contrasto con la volontà di Mussolini, al quale si attribuiva erroneamente la sincera intenzione di arrivare alla normalizzazione. Invece Mussolini giocava, per così dire, su due tavoli, quello della manovra politica nell’ambito delle forze tradizionali e quello della violenza illegale incoraggiando ora gli intransigenti, ora i revisionisti.
Pochi giorni dopo lo scioglimento della Camera, il 28 gennaio 1924, il duce ad una grande adunata fascista in Piazza Venezia (la prima tenuta in quella piazza) disse che nelle prossime elezioni il PNF intendenza combattere i partiti di sinistra e respingere ogni alleanza elettorale con altri partiti, ma era disposto ad accogliere nella sua lista elettorale “tutti quegli uomini del popolarismo, del liberalismo, e delle frazioni della democrazia sociale” disposti a collaborare, purché fosse ben inteso che la maggioranza doveva essere riservata allo stesso PNF. Il giorno dopo il Consiglio nazionale del PNF decise pertanto di nominare una commissione di cinque membri, detta quindi “pentarchia”, composta da Michele Bianchi, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo, Aldo Finzi e Francesco Giunta, incaricata di preparare la lista di maggioranza dei candidati per le sedici circoscrizioni elettorali previste dalla legge Acerbo.
Le liste, messe insieme dalla pentarchia con un lavoro reso difficile da aspri contrasti locali, formarono il cosiddetto listone, che comprese i 356 candidati previsti dalla legge. Entrarono nel listone numerosi uomini politici liberali e democratici, che accettarono così di dare al fascismo una collaborazione personale tendente ad annullare i loro vecchi gruppi e partiti. Tra questi si devono ricordare anzitutto Salandra e Orlando, che fecero entrare nel listone alcuni loro amici. Anche Enrico De Nicola entrò nel listone, ma ritirò la sua candidatura il 3 aprile per contrasti coi fascisti napoletani. Entrarono inoltre alcuni popolari, espulsi dal PPI nel luglio ’23, tra cui Cavazzoni, Martire, Mattei-Gentili. Altri liberali, contrari all’adesione puramente personale al listone, presentarono liste “parallele”, tra le quali una guidata da Giolitti. Lo stesso fecero i demosociali. I fascisti, per sfruttare alcune loro posizioni di forza, presentarono liste governative bis in quattro circoscrizioni (Toscana, Lazio-Umbria, Abruzzi-Molise, Puglia).
Tra i partiti e i gruppi antifascisti fu ventilata per qualche tempo l’idea dell’astensione dalla lotta elettorale per protestare contro le violenze squadristiche e denunciare solennemente al Paese e all’opinione pubblica internazionale la situazione illegale ed incostituzionale creata in Italia dal fascismo. La proposta cominciò ad essere discussa nel dicembre ’23 e trovò favorevoli, o almeno non contrari, il gruppo amendoliano, che si riuniva intorno al giornale Il Mondo, Matteotti e una parte del PSU. Anche F.L. Ferrari, leader di un gruppo della sinistra del PPI, subito dopo il discorso di Mussolini del 28 gennaio, chiese alla Direzione del suo partito di revocare la decisione, già presa, di partecipare alle elezioni; ma la sua proposta non fu accolta. Vari contatti per decidere sull’eventuale astensione vi furono in febbraio, ma ormai la decisione del PPI, poi del PCdI e del PSI di partecipare alla lotta spinse anche il PSU e tutti gli altri partiti e gruppi antifascisti a presentare le liste. Questi partiti affrontarono la campagna elettorale in condizioni molto difficili, in primo luogo per le violenze a cui erano stati ed erano ancora sottoposti dai fascisti, in secondo luogo perché erano travagliati da contrasti interni e da incertezze sulla linea da seguire di fronte al fascismo.

La campagna elettorale fu caratterizzata da una grande quantità di violenze, intimidazioni e brogli compiuti dai fascisti con la complicità delle autorità governative. Queste violenze erano, per così dire, la naturale espressione del fascismo. “Nessuno può lusingarsi”, scrisse Matteotti nella citata lettera a Turati, “che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà; tutto ciò che esso ottiene lo sospinge a nuovi arbitrii, a nuovi soprusi. E’ la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza; ed è il temperamento stesso che lo dirige”. Comunque la vittoria elettorale fascista, certamente accresciuta da queste violenze, era resa inevitabile dal meccanismo della legge elettorale e dalla situazione generale economica e politica, prima delineata, che spingeva vasti settori della borghesia ad incoraggiare o almeno tollerare l’illegalismo fascista per timore di un salto nel buio. Questa tolleranza del resto coinvolgeva anche i settori più arretrati delle masse popolari. Ma i risultati ottenuti nelle elezioni dalle opposizioni dimostrano che nel Paese esistevano correnti di resistenza al fascismo tutt’altro che trascurabili, anche se diverse e tra loro discordi.
Parteciparono alle elezioni 7.614.451 votanti, pari al 63,1% degli iscritti elettori; i voti validi furono 7.165.502, pari al 94,1% dei voti espressi. Il listone ottenne 4.305.936 voti, sicché furono eletti tutti i suoi 356 candidati, ridottisi però a 355 per la morte sopravvenuta di Giuseppe De Nava. La lista fascista bis ebbe 347.552 voti e 19 eletti. In tutto le liste governative ebbero il 64,9% dei voti validi e 374 deputati, dei quali 274 iscritti al PNF. Le liste dei liberali non entrati nel listone ebbero 233.521 voti (3,3%) e 15 eletti, tra i quali Giolitti. La Democrazia sociale ebbe 111.035 voti (2,2%) e 14 eletti: fu eletto Amendola con altri 7 della sua lista; non fu eletto Bonomi. Il PPI ottenne il risultato numericamente più notevole tra i partiti non fascisti, poiché ebbe 645.789 voti (9%) e 39 eletti. Il PSU ebbe 422.957 voti (5,9%) e 24 eletti. Il PSI 360.694 voti (5%) e 22 eletti. Il PCdI 268.191 voti (2,7%) e 19 eletti, dei quali 5 socialisti terzinternazionalisti. I repubblicani ebbero 133.714 voti (1,9%) e 7 eletti. Il Partito dei contadini, che si era presentato soltanto in Piemonte, ottenne 73.569 voti (1%) e 4 eletti. Il Partito sardo d’azione ebbe 24.059 voti (0,3%) e 2 eletti. Gli slavi e i tedeschi (della Venezia Giulia e dell’Alto Adige) ebbero 62.491 voti (0,9%) e 4 eletti. I fascisti dissidenti ebbero 18.062 voti (0,3%) ed un eletto, Cesare Forni.
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