A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

Un movimento sciolto “alla spicciolata”

di Stefano Fabbri

Le righe che seguono, a differenza di altri importanti e significativi testi predisposti per questo seminario, non hanno - e del resto non potrebbero avere per i motivi che cercherò di spiegare a breve - alcun preteso fondamento di carattere scientifico. Mi si chiede un contributo. Conscio del fatto che esso sarà controcorrente (mi pare in questo contesto di essere tra i pochi di coloro i quali vissero quella esperienza militando nei gruppi e negli organismi della sinistra rivoluzionaria), esso non potrà essere che di testimonianza. Almeno per quanto i ricordi non più freschi  potranno consentire.  Inoltre non potrà avere, lo dico subito, il sostegno di fonti e citazioni: a differenza della comprovata abitudine della sinistra ufficiale, quella che con uno sbrigativo termine allora molto in voga si chiamava “extraparlamentare” non ha mai avuto il culto dell’archiviazione. E questo denota, oltre al basso tasso di “leninismo” di quella esperienza, anche una sorta di visione non strutturale dell’esperienza del movimento degli studenti (si badi bene, movimento degli studenti inteso nella sua complessità ed estensione, non Movimento Studentesco con le maiuscole), un movimento che alle latitudini allora da me frequentate fu vissuto non come affermazione di un proto-ceto di futura classe dirigente del Paese, ma come uno dei mille fuochi destinati - così si pensava allora - ad alimentare il percorso rivoluzionario guidato dalla classe operaia.
Feci quella scelta in modo cosciente e preordinato per come la si può compiere a 14 anni e la mia iscrizione al Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci di Firenze avvenne sostanzialmente per due motivi: la rinomata fama che quell’istituto aveva come tra i più caldi della rivolta studentesca ed il basso carico di ore settimanali di lezione. Cominciai la “scuola” ai primi di settembre, prima dell’inizio delle lezioni, partecipando alle assemblee dei collettivi che preparavano alla facoltà di Magistero o all’Arci (?) in via Ghibellina. La strage di Piazza Fontana era di pochi mesi prima e gli ultimi giorni di scuola della terza media li ricordo segnati dalla contestazione ai comizi del Msi in piazza Strozzi e in piazza Signoria.
Nell’estate mi avvicinai - sicuramente per caso - all’Unione dei comunisti italiani (m-l) per abbandonarla appena cominciato il liceo. La militante che, in perfetto stile marxista-leninista, doveva aiutarmi a compiere una severa autocritica non era per niente convinta del suo ruolo. La ricordo con grande affetto e la ritrovai, meno di due anni dopo in Lotta continua. L’incontro con il collettivo che raccoglieva la sinistra rivoluzionaria al liceo mi portò, giovanissimo, all’esperienza degli “studenti proletari” che facevano riferimento al Centro di documentazione, che con diversi altri lasciai nel dicembre del 1972 per aderire a Lotta continua.

Giusto per dare alcune coordinate “storiche” di quella stagione posso ricordare che la bomba di Piazza Fontana, dove davvero molti persero la vita e una generazione intera perse l’innocenza, scoppiò quando ero in terza media e l’inizio dell’estate del 1970, gli ultimi giorni della scuola dell’obbligo, li ricordo tra corse  e fumogeni per le contestazioni ai comizi del Msi.
Chi ha cominciato il proprio impegno politico all’inizio dei ’70 entrava nel mondo del movimento degli studenti in una fase che ormai poteva considerarsi conclusa dal punto di vista delle rivendicazioni e delle conquiste “epocali”, ma tuttavia basilari, che avevano segnato i due-tre anni precedenti. La conquista del diritto di assemblea aveva soddisfatto quella che era in sostanza una precondizione per la discussione e l’organizzazione degli studenti, forte anche della stagione degli scioperi spontanei e di un clima segnatamente radicale dell’autunno caldo e dei suoi prodromi (che, come cercherò di spiegare, faranno sentire il suo segno anche su altri aspetti).  Ma dopo l’assemblea “diritto acquisito” , vi fu forte fatica a trasformarla in strumento organizzativo ed operativo per una fase successiva.
Cominciò così una fase di intervento e di impegno sulla didattica e sull’ampliamento degli spazi di “agibilità politica” e, dunque anche fisica, degli studenti negli istituti fiorentini.  Così nel biennio 1970-72 le lotte si concentrarono, soprattutto nei licei,  sulla rivendicazione di nuove forme di apprendimento sperimentale legate a contributi esterni (sindacalisti, esponenti antifascisti, studenti universitari, avvocati, etc)  o sulla critica serrata ai libri di testo e alla loro capacità di rappresentare una realtà sociale e storica superata o a volte reazionaria.
Diversa la situazione negli istituti tecnici, dove a prevalere era spesso  la spinta critica verso la scarsa prospettiva di lavoro che attendeva gli studenti a conclusione del loro ciclo di studi. E non solo per quanto riguardava gli aspetti strettamente occupazionali, ma anche per ciò che atteneva  le dinamiche di fabbrica e dei luoghi di lavoro in una fase già dominata dai primi segnali di ristrutturazione del capitalismo industriale.
A fare da denominatore comune  ai due fondamentali gangli dell’organizzazione scolastica, i licei e gli istituti tecnici, la  netta percezione della “truffa”  della promessa di promozione economica e sociale rappresentata dalla scuola di massa che, dietro la facciata dell’istruzione “per tutti”, era in realtà - questa l’analisi prevalente di allora tra gli organismi della sinistra non ufficiale - una enorme area di parcheggio per aspiranti disoccupati e sottoccupati.
Un tentativo - era ancora l’analisi di allora - di evitare che la rivolta studentesca che aveva toccato il suo apice pochi anni prima si saldasse con quella delle grandi fabbriche dove l’autunno caldo aveva lasciato una traccia profonda di autonomia operaia che presto sarebbe spesso sfociata nella stagione dei “consigli”,   il cui rapporto con il sindacato fu dialettico se non apertamente conflittuale.
In un panorama simile è chiaro che la presenza di organismi della sinistra tradizionale, in primo luogo la Fgci, non poteva avere alcun ruolo di traino: troppo radicale la critica all’istituzione scolastica e all’organizzazione della trasmissione del sapere ed ai sui ruoli prestabiliti. Troppo lontana dalle tattiche parlamentari e dalle relazioni formali tra le forze politiche di diverso orientamento la tensione radicale che animava il movimento e che trovò nella struttura orizzontale dei “nuclei” e dei “collettivi” il proprio modello organizzativo. In essi trovarono spazio giovani che facevano riferimento all’esperienza del “manifesto” dopo la sua uscita dal Pci, alle vicine esperienze del Potere operaio pisano, al  Gruppo Gramsci di Firenze, o ad altre piccole realtà locali, a danno anche delle formazioni “classiche” della sinistra di impronta stalinista come i gruppi marxisti-leninisti, con cui sarebbe stata impossibile una convivenza con la spinta libertaria che era una delle componenti di quella stagione.
Un ruolo assolutamente prioritario in questa fase fu svolto dagli studenti che si erano avvicinati all’esperienza dei Gap, Gruppi azione proletaria, poi Centro di documentazione, con la autodenominazione “studenti proletari”. Il Centro era il risultato dell’incontro tra esperienze operaie di base sviluppatesi alla Stice e al Pignone e ex militanti e dirigenti dello Psiup: una forte connotazione rivoluzionaria, ma senza la matrice della tradizione comunista.  Quella denominazione, “studenti proletari”, a dire il vero, non individuava una esatta condizione definita dalle categorie marxiste, bensì per gli studenti la cui famiglia di origine era operaia fu un modo per interpretare in modo “rivoluzionario” la loro appartenenza di classe; per gli studenti di origine borghese un’espressione per identificare quale sarebbe stato il loro ruolo futuro nella crisi economica.
I collettivi o nuclei e gli “studenti proletari” che facevano riferimento al Centro di documentazione si impegnarono nelle lotte studentesche del biennio 1970-72 in un’ottica antiautoritaria, tesa da un lato a far emergere le contraddizioni, si diceva allora,  della cultura borghese trasmessa dalla scuola e del ruolo stesso dell’istituzione subalterno alle classi dominanti e alla Dc. Al tempo stesso l’impegno fu profuso per cercare di “portare la lotta fuori dalla scuola”, attraverso la ricerca di contatti e di unità con le fabbriche ed il “sociale”.
Se nel caso delle fabbriche il rapporto fu complicato da una presenza pervasiva e a tratti paranoica del Pci (“chi vi paga?” era la frase più in voga rivolta agli studenti che distribuivano i loro volantini davanti ai cancelli), ma si risolse comunque soprattutto nello scambio con le esperienze consiliari, nel caso del “sociale” l’esperienza fu più profonda e, in alcuni casi, drammatica, con il precipitare del rapporto con il sindacato, il Pci e le istituzioni locali governate dalla sinistra.
   
Nell’estate del 1971 si sviluppa, anche attraverso la mobilitazione degli studenti di architettura che occupano la facoltà, un movimento di lotta per la casa che nasce tra gli ospiti del “centro sfrattati” di via Guelfa: molti di loro hanno una estrazione sociale che la classica letteratura marxiana definirebbe lumpenproletariat, ma che anche gli anni successivi avrebbero riclassificato come proletariato urbano marginalizzato dalla crisi economica, con opportunità di sostentamento discontinue e lontane dal rapporto con i mezzi di produzione proprio della classe operaia.  Gli studenti di architettura, dove già sta radicandosi Potere operaio (da non confondersi con il Potere operaio pisano),  gli “studenti proletari” ed il Gap-Centro di documentazione organizzano l’occupazione di case di via Manni: un’occupazione-lampo presto sgomberata.
La tensione cresce e si incrocia con quella che si sviluppa dalla lotta di architettura. A luglio una manifestazione degli studenti universitari sarà qualcosa di simile ad una Valle Giulia fiorentina: Vincenzo Simoni, uno dei protagonisti della lunga stagione della nuova sinistra fiorentina (che troverà forse nella lotta di via Guelfa la radice del suo impegno sul fronte della casa che lo vede oggi segretario nazionale dell’Unione Inquilini), annoterà nel suo libro “Prima del piombo” (Ed. Ponte alle Grazie, 1993) che per la prima volta a Firenze le forze dell’ordine vengono attaccate con bottiglie molotov.
Dopo lo sgombero di via Manni c’è un tentativo di cercare una  mediazione istituzionale ed una “delegazione di massa” si incontra con il presidente socialista della Regione, Lelio Lagorio. La trattativa si arena ma un gruppo di militanti del Pci, si disse allora quasi tutti scaricatori del mercato ortofrutticolo di Novoli, strutturati ed organizzati per un uso della forza - sempre negato ufficialmente dal partito, ma sul quale si poteva contare soprattutto per qella che allora era considerata la pratica dell’autodifesa dai neofascisti - irruppe nella sede della Regione di via dei Servi allontanando in modo quantomeno brusco gli “intrusi”. Alcuni di loro, si seppe dopo, furono avvisati che c’erano “i fascisti alla sede della Regione”.
Un intervento di tale durezza dette il destro ai settori più radicali di architettura, Potere operaio e Lotta continua (che allora contava molti meno militanti), per un’azione dimostrativa che ebbe vasta eco e non solo. Una lezione del professor Ernesto Ragionieri fu interrotta, il docente sottoposto ad un “processo” popolare, con tanto di tentativo di cartello al collo, per la sua appartenenza ad un partito revisionista.
Entrambi gli episodi - lo sgombero della Regione ed il "processo" a Ragionieri - segnarono una svolta, un punto di non ritorno nel rapporto tra sinistra extraparlamentare e Pci che a cascata si trasmise anche nel movimento degli studenti. Da allora lo scontro che prima era solo ideologico si trasformò in una dimensione in cui la stessa comune partecipazione ad una manifestazione era cronometricamente segnata da confronti aspri basati anche su un uso della forza, sebbene moderato, approfondendo la frattura tra spezzoni di corteo e tra compagni di scuola .
Ma proprio entrambi gli episodi - se ben si pensa estranei alle dinamiche proprie del movimento degli studenti medi - cristallizzarono, pur non essendone la causa, anche la nascita di due mondi, di due stili di vita e di due percorsi politici che non si sono più incontrati se non in modo contingente ed episodico, come nel caso della lotta antiautoritaria al Liceo Scientifico Da Vinci contro il professor Gregorelli, un personaggio pittoresco capace di coagulare contro le sue teorie di docente gli studenti di estrema sinistra, quelli che facevano riferimento alla sinistra tradizionale fino ai più moderati.  E’ una vicenda, quella di Gregorelli, che per la prima volta dopo molto tempo metterà gli studenti di fronte a situazioni critiche in cui si ritrovano molti dei segni delle iniziative antiautoritarie che furono proprie degli anni 60: gli interventi della polizia, le denunce, le bocciature e anche l’arresto di due studenti.  Paradossalmente questo salto indietro nel tempo smussò le differenze e gli antagonismi, senza però riuscire a suggerire alcun passo in avanti che il movimento degli studenti in quel periodo poteva compiere. Insomma la vecchia cara lotta antiautoritaria in ambito studentesco era, sebbene segnata da momenti di alta tensione, molto più rassicurante del rapporto con un panorama sociale in rapido mutamento e con il quale misurarsi era sicuramente più difficile e forse più politicamente rischioso.
Il 1972, anno segnato dalla nascita del governo di centrodestra guidato da Andreotti e dalla crescente crisi economica, ma anche dalla ripresa della stagione delle lotte operaie nelle grandi fabbriche del nord che subirà poi la sua vera battuta d’arresto solo otto anni dopo con la marcia dei 40.000 a Torino, trova una situazione in cui la presenza organizzata nelle scuole vede la Fgci orientata alla critica politica del nuovo assetto di guida del Paese, ma sempre e costantemente in guardia contro gli “avventuristi”, ed una nuova presenza della sinistra rivoluzionaria.
Un consistente gruppo di militanti ed esponenti dei collettivi degli “studenti proletari” aveva deciso poco prima, nel dicembre del 1971 (il 18 dicembre 1971 per l’esattezza)  di lasciare l’esperienza del Centro di documentazione e di rafforzare la presenza di Lotta continua a Firenze. Sono spinti da un’analisi che esula dalle questioni studentesche e che fa i conti con la nuova fase che si apre sia dal punto di vista politico con il governo Andreotti, sia dal punto di vista dello sviluppo della crisi economica e delle realtà - peraltro quasi sempre territorialmente lontane a causa dello stesso tessuto produttivo fiorentino - di crescita dell’autonomia operaia nelle fabbriche. I cortei interni alla Fiat e alla Pirelli sono i modelli ai quali si ispirano anche le iniziative di lotta nelle scuole che, però, poco hanno di rivendicativo e molto di iniziativa politica generale.

E’ una stagione nella quale Lotta continua e la Fgci (beninteso ci sono anche altre forze politiche, ma meno significative numericamente e non solo) agiscono nelle scuole “da partito”, da cinghia di trasmissione - si sarebbe detto allora - della linea politica generale delle due organizzazioni politiche. Sebbene, e questo è di sicuro motivo di riflessioni ben più profonde, paradossalmente radicate in modo indirettamente proporzionale nella scuola e nella società: un Pci maggioritario e pervasivo nel tessuto cittadino, impegnato nella conquista del potere negli enti locali che si concretizzerà soprattutto nel 1975, ma con una presenza spesso di testimonianza nella scuola;  una organizzazione politica, Lotta continua, che conta rarefatte seppure qualitativamente significative presenze nelle fabbriche, nessuna o quasi nel mondo culturale e accademico tradizionale, e pressoché maggioritaria nelle scuole quanto a iniziativa politica. Al liceo scientifico Da Vinci, al Terzo Liceo, all’Istituto tecnico industriale Da Vinci, all’Istituto d’arte, al Liceo Artistico, agli istituti professionali l’iniziativa politica vede protagonisti i suoi militanti.
Il 1972 è anche un anno di svolta sotto un altro profilo: il ruolo del Msi, rivalutato oggettivamente dal governo Andreotti, spinge anche nelle scuole i neofascisti a tentare la riconquista di uno spazio politico. Ciò avviene innanzitutto attraverso una pratica di tipo militare che si concretizza nel volantinaggio davanti alle scuole che spesso nasconde l’occasione per provocazioni, aggressioni e pestaggi. E’ una pratica che proseguirà almeno fino al 1974-75, ma che nel ’72 rafforza la crescita di un “antifascismo militante” che si esprime anche e soprattutto nel coinvolgimento di tanti studenti medi nel tentativo di impedire i comizi del Msi e che fa loro conoscere un’altra realtà di piazza, fino allora ignota: quella dello scontro non con i neofascisti ma con le forze dell’ordine. I militanti della Fgci, anche nelle scuole, reagiscono in modo diverso e a volte contraddittorio. Il Pci invita a non cadere nelle provocazioni, ma i suoi militanti partecipano non di rado agli scontri con i neofascisti. Si invita ad “isolare il Msi” e alla “vigilanza”, ma spesso ci sono anche i militanti del Pci e della Fgci in piazza a tentare di impedirne i comizi. E’ un doppio, ma generoso, binario che coinvolgerà spesso anche altri settori del partito comunista fino alla morte di Rodolfo Boschi, il 18 aprile 1975, durante gli scontri per impedire un comizio del Msi. Sull’episodio furono date molte versioni ufficiali, fino a cercare di far risalire le responsabilità ad un militante di Potere operaio che avrebbe usato una pistola suscitando così una identica reazione da parte delle forze dell’ordine.
La “vulgata”, suffragata però da ragionevoli testimonianze, vuole invece che Boschi e altri suoi compagni fossero in piazza certo non per assaltare il palco del comizio, ma perché esserci significava testimoniare - e all’occorrenza anche qualcosa di più - la propria scelta di militanza antifascista.

Tuttavia il periodo 1972-1974 non è segnato solo dall’impegno degli studenti nella lotta al neofascismo, con un tributo anche pesante di feriti e picchiati, per fortuna senza esiti irreparabili se non quello di una tensione permanente per anni, ma in cui destò particolare emozione e rabbia il pesante pestaggio di un leader degli studenti di Lc, Andra Montagni “Formaggino”.  Ma è di quella stagione un’altra delle dispute - oggi considerabile apparentemente ideologica - che videro due visioni distinte e spesso contrapposte tra gli studenti della Fgci e gli studenti di Lc e delle altre organizzazioni della sinistra radicale: quella della richiesta dello scioglimento e messa fuorilegge del Msi. Contrari i primi, in ossequio ad una linea del Pci che pur nella concezione dell’ “arco parlamentare” non potevano inimicarsi la Dc  (mi si passi lo schematismo)  in cui convivevano matrici derivate dalla Resistenza e dall’esperienza dei Popolari ma anche settori inclini ad un rapporto organico con la destra parlamentare. Promotori della proposta i secondi, che su quella parola d’ordine “Msi fuori legge”, sulla cui valutazione ancora oggi ci sarebbe solo il rischio del peso ideologico per tracciare un bilancio di quella “campagna”, raccolsero consensi enormi non solo nella scuola, ma anche inaspettati in settori della società e del sindacato.
Occorrerà però attendere il periodo tra il 1973 ed il 1974 perché l’iniziativa nella scuola torni ad essere legata alla condizione degli studenti. Ma mentre nei licei si istituzionalizzano alcune esperienze didattiche legate, appunto, alla “sperimentazione” , che premiano l’attenzione mostrata dalla Fgci ai contenuti ed ad un organico rapporto con gli insegnanti di sinistra e la Cgil Scuola mentre conducono ad un binario morto l’iniziativa più radicale di Lc e dei “gruppi”, è negli istituti tecnici e professionali che attecchisce maggiormente la proposta politica della sinistra rivoluzionaria, più legata al rapido consumarsi della situazione economica che troverà nella crisi petrolifera e nelle limitazioni alla mobilità e all’uso dell’energia il suo apice.
Proprio questa necessità di rapporto osmotico con la società, intesa come classe operaia e come esperienze più emergenti dell’organizzazione sociale nei quartieri, connessa al rendersi conto del rischio che Lotta continua si trasformi in una organizzazione quasi esclusivamente studentesca, fa nascere in tutta Italia l’esperienza dei Cps, i Collettivi politici studenteschi. Si tratta di organismi di massa, riferibili a Lc, con una capacità autonoma di organizzazione e di elaborazione teorico-politica, in grado di accogliere studenti in base non più e non solo al loro grado di adesione ad una visione politica generale “di partito”, ma al loro stesso status di studenti.

Non cambia molto rispetto all’elaborazione originaria della scuola come area di parcheggio della disoccupazione e del ruolo degli studenti dentro il conflitto di classe, ma i punti di forza della proposta politica dei Cps vertono su alcune emergenze concrete, materiali e per questo paradossalmente tutte “politiche”. Uno dei punti di maggior successo della “piattaforma” degli studenti fiorentini organizzati dai Cps non è più legato alle questioni specifiche delle singole scuole, o a rivendicazioni allora quasi risibili e potremmo definire pretestuose (ma oggi ancora drammaticamente irrisolte, come l’edilizia scolastica e la sicurezza degli edifici), ma assolutamente trasversale e “di classe”: un contributo una tantum di 40.000 lire a studente per  sostenere i costi della scuola. A versarli deve essere la Regione gestita da Pci e Psi. E’ una svolta. Gli studenti, come gli operai, pongono politicamente una questione economica per far fronte alla crisi ed individuano come controparte l’unica istituzione a livello locale (a parte la Provincia i cui poteri già allora erano incerti) governata dalla sinistra. Su quella parola d’ordine i Cps organizzano la mobilitazione che culmina con una grande manifestazione di migliaia di persone proprio davanti alla sede della Regione Toscana. L’esito della rivendicazione è, come al solito, fallimentare. Ma il patrimonio che resta è quell’organizzazione di massa dei Cps che farà da modello,  o almeno da forte spunto di riflessione, anche per  il Movimento studentesco fiorentino. Piaccia o meno.
Al netto della sconfitta nella “vertenza “ sulle 40.000 lire e delle sue possibili paradossali derive pansindacali (che peraltro non vi furono), quella fase del movimento degli studenti fa vivere di vita propria organismi che non solo promuovono riunioni, occupazioni simboliche e cortei, ma organizzano concerti, si rapportano con esperienze sociali nei quartieri, stabiliscono relazioni con consigli di fabbrica, liberi - sebbene chiaramente ispirati da Lc - di autorganizzarsi e di determinare la propria autonomia, legati da forme di coordinamento orizzontale tra i Cps delle diverse scuole. In breve quel modello organizzativo e politico fa scuola e, come la Settimana Enigmistica, vanta il più alto numero di imitazioni: i Cub, che pure erano preesistenti nelle fabbriche promossi da Avanguardia operaia e tentano un radicamento nelle scuole (ma è difficile trasferire automaticamente ad una scuola le caratteristiche di un organismo nato in fabbrica), i Cpa, legati al Pdup. E, secondo la mia visione, anche il Movimento studentesco fiorentino trae alcune delle sue origini da quella esperienza.  Non basta più anche per il Pci e per la sua organizzazione giovanile una presenza che per quanto strutturata non riesce a conquistare fette consistenti degli studenti, per molti dei quali la militanza comune nello stesso partito dei padri e dei nonni non assicura quel grado di radicalismo che l’età ma soprattutto le rapide mutazioni della società italiana richiedono.
Non possono essere risolte nel seno del partito - ma fatte le debite proporzioni ed eccezioni la stessa cosa riguardava anche le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria - contraddizioni difficilmente riconducibili ai classici del marxismo: la musica, l’uso di droghe benché leggere, la vita in comune non legata alla pratica del matrimonio, il sesso in tutte le sue declinazioni, la nascita della specificità di genere che troverà nel femminismo uno dei punti di maggiore crisi della politica tradizionale.
Il Pci ha una grande opportunità: regolare e mitigare queste contraddizioni in un organismo di massa che si definisce autonomo, senza che esse causino tuttavia fratture insanabili non tanto con la tradizione comunista e del movimento operaio quanto con l’area di consenso che in quegli anni si sta formando tra i ceti intermedi attorno al partito comunista. E contemporaneamente offrire un’alternativa più rassicurante al desiderio di trasgressione e di radicalismo che è cresciuta nelle scuole. L’operazione riesce. Il Movimento studentesco fiorentino diventa negli anni successivi maggioritario nelle scuole, paradossalmente (o forse no) proprio nella fase di maggior debolezza delle lotte studentesche e di inizio di quel riflusso politico che anticipa di quasi un quinquennio  il fenomeno pervasivo di tutta la società: il “riflusso” senza aggettivi degli anni Ottanta, che, nonostante tutto saranno invece anni di grande creatività e innovazione politica, sociale e culturale.
Ma le origini di questo successo vanno anche ricercate in altri fattori. Uno dei questi è il confronto con le forme di democrazia elettiva che attraverso i decreti delegati per la prima volta dopo il 1968 entrano nella scuola. L’elezione degli organismi collegiali del 1974-75 segna quasi ovunque un clamoroso insuccesso della decisione dei Cps, Cub e Cpu di presentare propri candidati: le loro matrici d’origine, soprattutto di Cps e Cub (ma questi ultimi erano rari) non parlano il linguaggio della democrazia elettiva, non ci sono strumenti organizzativi, nè una “storia” elettorale. Solo per il referendum sul divorzio del 1974 gli studenti, pur non votando (il voto ai diciottenni è del 1975), partecipano alla campagna per il no spesso con lo slogan “due voti per ognuno di noi che non può votare” . Ma negli organismi collegiali dei decreti delegati si anticipa così nella scuola quella regola aurea che la sinistra rivoluzionaria pagherà amaramente nelle elezioni vere, politiche, degli anni successivi: piazze piene e urne vuote. Le elezioni degli organismi collegiali vedranno invece prevalere nettamente le liste del Movimento studentesco fiorentino e, solo allora avremmo detto per ingenuità insospettabilmente, quelle  degli studenti cattolici. La debacle elettorale per i Cps avviene nel momento di massimo riflusso delle lotte studentesche e difficile ancora oggi è capire quale sia la causa e quale l’effetto.
I Cps reagiscono tentando “sortite” che per paradosso fanno compiere una specie di percorso a ritroso del loro essere autonomi e di massa: “escono” nei quartieri, partecipano alle lotte per l’autoriduzione delle bollette o, come nel caso di San Jacopino, partecipano organicamente alle iniziative del Comitato di quartiere (organismi territoriali spontanei dove forte è la presenza del Pci) per l’occupazione di aree dismesse allo scopo di far realizzare scuole dell’obbligo e servizi per i cittadini. Ma ciò non basta e soprattutto ha una incisività tendente a zero sul tessuto scolastico. Anzi, c’è un vero e proprio “riflusso” anche nella vita propria dei Cps i cui animatori  tornano a legarsi sempre più a Lc e a compiere la scelta di diventare sempre più militanti a tutto tondo piuttosto che ad impegnarsi sul terreno della scuola.

Il biennio 1975-76 vede progressivamente l’assenza dell’iniziativa politica dei Cps, e più in generale lo stesso Movimento studentesco fiorentino perde di incisività. In ballo ci sono partite politiche importanti in cui, paradossalmente, la mobilitazione studentesca non darà il proprio contributo di massa attraverso mobilitazioni specifiche bensì attraverso la partecipazione sempre più larga di studenti-militanti ai grandi appuntamenti delle elezioni amministrative del 1975 (Lotta continua dichiara apertamente di sostenere le liste del Pci alle amministrative) e delle politiche del 1976, dove il mancato sorpasso del Pci sulla Dc sarà reso più amaro dal misero risultato delle liste “rivoluzionarie” che si presentano con la sigla Democrazia proletaria.  Nel 1976 Lotta continua si scioglie nel suo congresso di Rimini.
In meno di quattro anni, dal 1972 al 1976, si consuma la sua forte presenza tra gli studenti e una discreta capacità di intervenire nella vita politica fiorentina, grazie anche a leader la cui caratura sul piano politico, professionale e non ultimo su quello umano è sopravvissuta a quella esperienza. Quattro anni segnati tra l’altro da momenti la cui particolare gravità sarà compresa nella sua interezza solo molto dopo, come nel caso dell’omicidio del commissario Calabresi che oltre a quella dei suoi familiari ha stravolto radicalmente, e altrettanto ingiustamente, la vita di persone come Adriano Sofri e pesato, ancora altrettanto ingiustamente, su quella di migliaia di persone, dalle più interne a quella organizzazione che hanno dovuto combattere il sospetto pubblico di aver fatto parte di un’associazione dedita all’assassinio come mezzo di lotta politica, alle più “periferiche” la cui coscienza è stata agitata nel chiedersi chi avessero in realtà frequentato nella loro vita giovanile.  Ma anche quattro anni in cui un numero relativamente considerevole di persone che comunque ha avuto a che fare con il movimento degli studenti o ne ha incontrato le sue organizzazioni ed i suoi organismi, ha poi intrapreso strade  drammatiche come quella del terrorismo, delle droghe pesanti, o ancora di una estetica della marginalità sociale che le ha condotte ad esiti devastanti e devastati. Di converso quella stessa esperienza porterà alcune di esse a fare i conti con la vita politica nelle organizzazioni della sinistra tradizionale, del sindacato. Altri ancora tenteranno un approccio con la tradizione riformista della sinistra italiana segnata dal criterio dei “meriti e dei bisogni”. E ancora altri, seguendo una riflessione ben più radicale, hanno scelto di trovare un approdo nella Chiesa cattolica, spesso nelle sue declinazioni più tradizionali. C’e’ un interessante libro di Adriano Sofri edito da Sellerio nel 1996 (“Si allontanarono alla spicciolata. Le carte riservate di polizia su Lotta continua”) che, immagino sia stato incidentale, o almeno a me piace immaginare così. Nell’esaminare carte nelle emeroteche e soprattutto negli archivi di stato per predisporre la sua difesa nel processo per l’omicidio Calabresi, Sofri si è imbattuto in antichi verbali degli uffici politici delle questure che davano conto di incontri, riunioni, comizi e manifestazioni che venivano attentamente osservate. Quasi tutti i rapporti si concludevano con l’annotazione per cui i partecipanti “si allontanavano alla spicciolata”. Quella espressione ha dato significativamente il titolo al libro di Sofri ed è realmente quello che è accaduto a molti che vissero quella breve ma intensa esperienza: tutti allontanati “alla spicciolata”.
Ma il portato politico di quella che allora sembrava una lunga stagione di militanza e di agitazione studentesca - in realtà una manciata di anni - lascia sul terreno non più organizzazione e continuità di azione, ma comportamenti collettivi, anche nuovissimi, tesi più a incidere sui costumi e sulla vita sociale fuori dalla scuola. Il femminismo, il “rifiuto dello studio-rifiuto del lavoro”, l’attrazione verso una marginalità sociale che stava emergendo e che prenderà il posto della figura dell’operaio-massa dei primi anni ’70, la creatività più trasgressiva nella musica e nelle altre arti, nella comunicazione: tutte spinte, diversissime tra loro, ma che preparavano quello che pochi mesi dopo sarà il 1977. Ma questa è un’altra storia.

comunicazione effettuata in occasione del convegno "Tra memoria e storia. Il Movimento Studentesco Fiorentino (1971-1978)" (9-10.5.2014)

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