A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

Lo scioglimento del Movimento studentesco fiorentino: ricordi e riflessioni

di Giovanni Stefanelli

Le cause della fine di un’organizzazione sono sempre meno indelebili e definite di quelle che portano alla sua nascita e al suo sviluppo, anche perché un’organizzazione si scioglie, nella sostanza, perché perde di senso, e questa perdita di senso, con buona pace degli storici, rimane come una nebbia anche quarant’anni dopo, soprattutto per chi quell’organizzazione l’ha vissuta in modo intenso.
Vado per punti.

I

Credo che andrebbe analizzato (ma sarà possibile?) l’influsso che ebbe sulle vicende del MSF il generalizzato ricambio dei gruppi dirigenti delle varie FGCI, nazionale e locali, che avvenne (vado a memoria) intorno al ’76, ricambio dovuto ad un insieme di cause.
La più semplice e oggettiva di queste si può individuare nella necessità di utilizzare i quadri del partito in incarichi pubblici a seguito delle amministrative del ’75 e delle regionali del ’76 e di sostituirli con quadri nuovi, utilizzando in questo anche quelli della FGCI. In genere, il ricambio dei gruppi dirigenti era un fatto normale nelle organizzazioni giovanili, svolgendo queste la funzione di vivaio dei quadri di partito. Nella FGCI di quegli anni, però, era un po’ diverso. C’era un senso di appartenenza e di identità più specifico (il tema dell’autonomia della FGCI), più marcato, creato dai molti stimoli della scena politica, sociale e culturale provenienti dagli anni ‘60 e al ruolo che in questi aveva la questione giovanile, vissuti, oltretutto, attraverso il ricollegamento all’originalità  e alla diversità del PCI nella storia del movimento operaio, delle quali la figura di Gramsci era fra i maggiori paradigmi. Si cercava di misurarci con la rielaborazione di alcuni capisaldi concettuali della cultura strategica del PCI e del movimento operaio (transizione, egemonia, alleanze, classi sociali, rapporto partito-sindacato-movimenti, ecc.), sentendo, o immaginandocelo, di aggiungere in modo inedito, ma costruttivo, dosi ulteriori di diversità e di autonomia a quelle di cui già il PCI godeva a livello internazionale in modo pronunciato, e per le quali avevamo sia l’orgoglio che la coscienza di sapere che erano gli elementi che ne facevano il più grande partito comunista dell’occidente. Non che nella FGCI fosse del tutto assente la logica formativa, di preparazione alla vita del partito, ma era fortemente proiettata verso una trasformazione della cultura dello stesso in linea con i cambiamenti. Forse è in questo percorso che nasce il rifiuto della logica delle cinghie di trasmissione e una visione dell’autonomia che non si fermava ai soli movimenti ma si estendeva anche ad un rapporto col partito stesso, rapporto fatto di rispetto, di dibattito, anche di ammirazione, ma non di riverenze. Ricordo che quando un quadro della FGCI passava molto presto e inaspettatamente al partito, si diceva, con quel genere di espressioni prepolitiche ma efficaci che si usano nelle comunità quando queste sono effettivamente tali, che era un po’ “destro”. Pare ovvio, dunque, che in un’organizzazione così, il ricambio dei gruppi dirigenti fosse un fatto un po’ meno normale e un po’ più simbolico rispetto alle altre.
A buttare benzina sul fuoco di una organizzazione in cui la militanza aveva un alto senso di autonomia identitaria, intervenne il XX Congresso di Genova.
Amos Cecchi tratteggia la vicenda in termini sintetici - quando vuole, anche lui sa farlo -, e correttamente esaustivi, o almeno così a me pare. Appaiono termini nobili, di chi ricerca non il protagonismo ma il distacco proprio dei contenuti politici, e la cosa gli fa onore ripensando alla sua posizione di allora. Ma parlando in modo più diretto, si può dire che per molti di noi la nomina di D’Alema a segretario fu vista come il commissariamento della FGCI da parte del partito. Dico nomina perché l’elezione in quanto tale fu solo una ratifica formale di una decisione esterna e determinata a priori, e neanche una ratifica fra le più disciplinate per un’organizzazione comunista basata all’epoca sulla cultura del centralismo democratico, dato che non riscosse l’unanimità dei voti. Quel dissenso non era un pregiudizio, ma una valutazione o, quanto meno, una preoccupazione fondata anche in chi, sempre per disciplina di partito, aveva espresso un voto favorevole: in quello che oggi potremmo chiamare il suo curriculum, non c’era nulla che giustificasse quell’incarico, addirittura neanche quel pezzo di carta della tessera della FGCI. Fu uno schiaffo all’autonomia della FGCI. Così vivemmo quella “elezione” io e uno sparuto gruppo di delegati al congresso (fra cui Katia), anche se non ricordo se votammo contro o ci astenemmo. Ricordo il silenzio che sorse in mezzo al caos del palazzetto dello sport quando alzammo la delega. E, se mi permetti un cenno personale, lì dovevo capire o che non ero un buon comunista o che la politica non era fatta per me, o io per lei, o tutte e tre le cose.
Sospetto appariva inoltre il fatto che il tutor del partito, delegato ai rapporti con la FGCI, fosse Chiaromonte, fra i molti meriti del quale, peraltro, non si ricordano oggi, né impressionarono allora, particolari e strenue difese dell’autonomia dei movimenti, ma casomai una lettura del compromesso storico (che del resto non fu il solo ad avere) che ritengo essere il prodromo di una cultura politica consociativa che, dopo Berlinguer, allignerà anche nel PCI e che, a mio personale giudizio, porterà prima alla Bolognina, e poi a gruppi dirigenti del partito pressoché omologhi alle logiche autoreferenziali della politica intesa come privilegio censuario. Lasciamo stare, tanto, ormai, peggio che Renzi…
Si sa che le motivazioni sono tanta parte dell’impegno politico, e che ciò vale in qualsiasi età ma in modo particolare da giovani, come descrive in modo esemplare Giovanni Spallino. Così, si sa anche che, pure in politica, le motivazioni le generano non solo i fatti ma anche gli stili, i comportamenti, i linguaggi, i cosiddetti modelli. L’impressione era che D’Alema si fosse prestato, forse perché naturalmente incline a un tale genere di prestazioni, ad interpretare la supponenza con cui ampi settori del partito guardavano alla questione giovanile, settori composti da generazioni un po’ prede di quella visione crociana - che non è neanche la parte migliore del pensiero del filosofo - per la quale il dovere dei giovani è quello di diventare grandi, assioma moraleggiante che puntellava le forme (classiste e clericali) della trasmissione del sapere e le modalità (anch’esse classiste) di formare le classi dirigenti, che studenti e insegnanti volevano in quegli anni trasformare.
Per comprendere - e spero di non essere troppo semplicista - quale fu il cambio di passo, si potrebbero prendere ad esempio gli slogan dei due congressi nazionali, quello di Genova del ’75 e quello di Firenze del ’78, tenendo presente che a Genova si arrivò sulla base delle varie esperienze nazionali simili al MSF, che lì fu chiusa tale fase e ne fu aperta un’altra, e che a Firenze, invece, si giunse per mettere a regime i primi effetti di questa nuova fase. A Genova si guardava a “L’unità dei giovani”, a Firenze, al di là della contingente necessità di richiamare il rifiuto della violenza e il valore della democrazia, il succo politico era “Una nuova FGCI”. A Genova, gli altri, i giovani, a Firenze noi, la FGCI. A Genova c’era “un’Italia socialista”, a Firenze un “cambiare la società”. Un notevole cambiamento di visuale, di oggetto del lavoro, di orientamento generale, forse richiesto dalle condizioni, ma pur sempre cambiamento, e siccome gli esseri umani non hanno risorse infinite neanche quando fanno politica, se quelle a disposizione le destinano prioritariamente su una cosa, tutte le altre vanno a morire. Non c’è dubbio che le condizioni post ’75 diventarono velocemente e pesantemente sfavorevoli, ma per la mia visione della politica (o almeno per quel che mi ricordo, perché non so se oggi ne ho una) le condizioni oggettive avverse non diminuiscono, ma anzi accrescono la responsabilità soggettiva (in senso politico, è ovvio, non personale). Per questo credo che sia stato fortemente caratterizzante (e condizionante) il lavoro che poi, nel ’78, avrebbe avuto una sua spiegazione in quello slogan molto autoreferenziale, “Una nuova FGCI”. Per coloro per i quali l’organizzazione era uno strumento, e non il fine, e che, come nei circoli universitari della FGCI, si ponevano in modo quasi esclusivo la domanda di “come stare nel movimento” senza per questo “sciogliersi nel movimento”, e non quella di quale nuova organizzazione giovanile di partito creare, era una frase che suonava un po’ lontana dai problemi reali.
Non c’è da negare quanto di importante, di costruttivo e di … bello (perché no?) fu fatto in quei cinque anni, dal ’75 all’80, ma se talvolta un cambiamento di fase si spiega in modo compiuto non tanto per il modo in cui si manifesta immediatamente, ma per ciò che produce nel tempo, sono abbastanza sicuro che, indagandovi, risulterebbe di una certa coerenza il fatto che il successore di D’Alema sia stato il buon Marco Fumagalli della FGCI milanese che, per la storia del movimento operaio e della sinistra extraparlamentare in quella città, era particolarmente settaria e operaista (nel senso che era congenitamente insensibile alle tortuosità del mondo giovanile), e non Walter Vitali, col quale vivemmo l’esperienza dei circoli universitari della FGCI e di quello che si chiamava “movimento” e che cacciò Lama.
Faccio queste considerazioni credendo che non sia “altro” dall’analisi sulla fine del MSF, o almeno non del tutto. Il MSF aveva nella FGCI il suo scheletro e un cambiamento delle motivazioni dei suoi militanti, se non addirittura la perdita di quelle iniziali, non potevano non avere ripercussioni organizzative.

II

Parto per praticità dalla frase con cui Stefano Bassi conclude il suo intervento, riferita alla vicenda umana e politica di Raicich, dove sono contenuti in forma essenziale i riferimenti ai passaggi che, con sviluppi complessi, hanno maggiormente influito sulla vita del movimento degli studenti medi, e che non occorre ricordare. Ai fini della nostra analisi, però, riprenderei la frase sulla sparizione di scena della riforma della scuola, di per sé giusta, come spunto per affrontare un tema che, anche se non sono in grado di trattare compiutamente, mi sento comunque di accennare, e cioè quello della più complessiva perdita di centralità della scuola intesa come luogo di lotta giovanile e di formazione di una coscienza politica collettiva. L’indagine su  questo punto sarebbe complessa, almeno per me, ma credo di ricordare che ci fu come uno slittamento dalla scuola al territorio e al sociale degli orientamenti politici giovanili. Molte le cause, anche queste presenti, o comunque accennate, negli atri interventi. Personalmente, e andando in ordine sparso, direi questo.
- Sicuramente influì il cambiamento sia di pelle che di anima dell’estremismo extraparlamentare, che aveva, inutile negarlo, un suo potere di rappresentazione della questione giovanile. Quel cambiamento si basò su una destrutturazione anche delle linee politiche dei gruppi che lo componevano, facendo prevalere le idee, peraltro sempre presenti in loro, del panproletarismo (casa, quartiere, carcere, disoccupati contro i sindacati operai, ecc), idee nelle quali non c’erano più né specificità sociali, come quella studentesca, né specificità “ambientali”della lotta, come era stata la scuola (tanto per rendere l’idea con una battuta: dalla scuola all’esproprio proletario nei supermercati).
- Per altri versi, la nuova presenza di studenti moderati nelle scuole, facilitata dagli organi di democrazia formale, facendovi rientrare visioni e modelli sociali tradizionali e fortemente ancorati alla famiglia e alle istituzioni, fra le quali i partiti, appannarono un po’ quell’alea di specificità, di autonomia e in qualche modo di separatezza su cui si basava quel percorso che, pur allargandosi ad un fronte di trasformazione più ampio al quale la scuola si correlava, partiva dalla presa di coscienza della condizione studentesca, quasi come pietra miliare della più organica questione giovanile. Con i moderati riemerse il “giovanilismo”, di cui la goliardìa fu il simbolo fino agli anni ‘60, espressione che stava ad indicare una visione apolitica del conflitto generazionale, nella quale si negava alle nuove generazioni un potere di critica strutturale ai nessi fra produzione, sapere e società, e si ricollocava quel conflitto in uno scenario ecumenico più che classista. Forse si può dire che a quel neogiovanilismo seguì quello che poi verrà chiamato “riflusso”, e forse si può anche dire che in quelle formazioni moderate si formarono quei gruppi dirigenti che, nel corso dei decenni successivi, saranno gli attori della battaglia, anche trasversale, contro la laicità in Italia.
- Cito la cosa solo per fare un ragionamento, ma non so se possa aver influito anche il fatto che, per qualche anno a partire dal ’74-’75, l’Italia raggiunse il tasso d’inflazione più alto della sua storia (mi pare si sia arrivati al 20%). Le condizioni materiali del paese cambiarono effettivamente, e aggiunto agli effetti deleteri di un sistema formativo del quale noi stessi denunciavamo gli aspetti patologici (poco diritto allo studio, molta scolarizzazione di massa, scuola-università come area di parcheggio della forza lavoro disoccupata), l’idea che era possibile cambiare la propria condizione specifica si allentò, e sulla questione giovanile acquistarono appeal le impostazioni più “genericiste”. Il problema era sempre meno la condizione studentesca in quanto tale, e quello che nel ’77 si chiamò “movimento” era movimento tout court e su tutto, così come erano cattolici tout court, e su tutto, quei movimenti che ripresero in quel mondo.
- In modo diverso, cioè cercando di contrapporre “l’organicità” alla “genericità”, anche nella FGCI si ebbe qualcosa di simile. Le esperienze della Lega dei disoccupati e quelle dell’aggregazione culturale trovarono molto più spazio sia nella linea politica che nell’utilizzo delle risorse organizzative, ma l’impressione era che tali scelte, oltre che per motivi politici più che giusti, fossero dovute anche alla necessità di presidiare (per non dire rincorrere) una questione giovanile che cambiava in modo profondo e che non era più quella che ci eravamo immaginata per tanti anni.
- Leggo sul materiale che Gianni Pini ha ricordato l’influenza di quell’evento straordinario che furono le giunte di sinistra del ’75. Non so in che contesto lui ne parla e non so se diciamo una cosa simile, ma sono comunque d’accordo con lui nel dare importanza alla cosa, perché è vero che fu un fatto politico che ebbe un’incidenza rilevante nel determinare un cambiamento di fase rispetto al quale, forse, non tutti eravamo pronti. Sarebbe lungo entrare nel merito, ma quella vittoria cambiò le aspettative e i tempi di attesa delle risposte, il peso specifico di alcuni dei temi che componevano la questione giovanile rispetto ad altri, creò la speranza di un ampliamento degli spazi e delle possibilità di espressione della cultura giovanile e trasformò di conseguenza il modo di intendere il territorio e la città nella vita dei giovani, il rapporto fra luoghi della città, luoghi della scuola e luoghi della lotta, e, non ultimo, concorse a cambiare la percezione dell’idea di militanza e di organizzazione in anni in cui questa idea era fortemente sottoposta a critica per il suo carattere totalizzante e lesivo di quella che si chiamava “autonomia del privato”, tema che emerse anche per il sostegno di alcune teorie che si divulgarono in quegli anni, come quella della Heller sui bisogni in Marx.
In sostanza, fu come se delle cinque caratteristiche si cui si basava l’idea del MSF (movimento, studentesco, autonomo, politico, di massa) mancasse all’appello l’importanza di essere studenti, non solo come asset strategico (come direbbe Marchionne) della nostra politica, ma anche per il conseguente ridimensionamento del luogo dell’aggregazione, cioè la scuola, con le implicazioni che questo comportava sui diversi piani delle motivazioni dei militanti, del “proselitismo” e del mantenimento della rete organizzativa.

III

Concludo con due riflessioni particolarmente soggettive e forse fuori tema.
La prima la pongo con un po’ di timidezza non sapendo se, in realtà, non sovrappongo soltanto la mia personale esperienza a fatti ben più ampi. E’ corretto parlare di “scioglimento” quando ci si riferisce ad una specifica organizzazione, ma non è detto che alla fine di un’organizzazione corrisponda necessariamente anche la scomparsa del processo che quell’organizzazione ha animato, processo che può invece trasformarsi ma non interrompersi. Può essere che l’esperienza del MSF si sia riversata, negli anni successivi al ’75, in quella dei circoli universitari della FGCI ? Può essere che il processo si sia trasformato? Ricordo che quasi tutti, nei circoli universitari della FGCI, conoscevano i leader del MSF, il MSF era parte essenziale della formazione della loro coscienza politica. Non so Daniele Pugliese cosa ne pensa, ma per inventarci una mediazione fra l’autoreferenziale “Una nuova FGCI” e una FGCI ancora di movimento, ricorremmo nell’università a pubblicare un giornalino che aveva come testata tre parole che erano un simbolo lessicale del movimento degli studenti medi di quegli anni, cioè concentramento ore nove, che diventò “Concentramentorenove”. Ci rivolgevamo, insomma, alla generazione del MSF che non era più nella scuola media, anche per distinguerci dall’esperienza della Sezione Universitaria del PCI.
Vengo alla seconda riflessione, dicendo subito che non è altro che un divertissement intellettuale, e mi ricollego al punto che ho segnato con l’asterisco nella prima pagina, dove ricordo l’aspirazione alla attualizzazione (e forse alla rielaborazione) di alcuni capisaldi concettuali della cultura strategica del PCI e del movimento operaio, citando per fare un esempio i concetti di transizione, egemonia, alleanze, classi sociali, rapporto partito-sindacato-movimenti, e a come questi ebbero una ricca articolazione fra gli attori del mondo della produzione e della trasmissione del sapere, del quale la scuola fa parte.
L’impianto concettuale del MSF, a mio avviso, nasce lì, in quella impostazione teorica che dava una capacità di correlare aspetti diversi e di dar loro le gambe e, al di là delle contraddizioni che ogni processo che si faccia ampio porta con sé, godeva di una armonia strategica.
Parlo di questo perché, per tornare al tema della fine del MSF, mi piacerebbe sapere se si può dire che questo movimento non sia stato il prodotto di una cultura politica tanto matura da essere improvvisamente vicina al suo superamento, se successo e declino del MSF non siano entrambi dovuti a tanta e tale maturità, e se non sia stato in qualche modo anche l’acceleratore della crisi della sua stessa matrice. Ciò, almeno in parte, spiegherebbe non solo ciò che è successo e seguito al congresso di Genova, ma anche quel senso di inefficacia che si profuse ad un comitato centrale del partito (fine ’77, primi ’78 ? Sicuramente prima di Moro) in cui l’analisi maggiormente dotata di sensibilità su quel che succedeva fra i giovani fu quella di Cesare Luporini, che cercò di proporre la “crescita della soggettività” come chiave di lettura, senza peraltro alcun esito.
Tutto questo mi porta a pensare che sarebbe bello sapere (e qui starebbe il mio divertissement) se esiste un rapporto, e di che tipo, fra tutta una serie di temi specifici (e forse minori), come la fine del MSF, la diversa importanza della scuola, il modificarsi della questione giovanile, e la ben più grande questione della fine del ‘900, e se proprio in questi temi (minori) si possono trovare le tracce del suo incipiente apparire. Mi immagino, anche se non so procedere in modo compiuto né se tutto questo ha un fondamento, che il declino della cultura strategica del PCI, il tramonto del fordismo “ortodosso” e le invenzioni che Gates e Jobs facevano nei loro garages, abbiano negli anni ’70 una concomitanza che sia qualcosa di più di una pura coincidenza, e che questo fosse lo scenario in cui operavamo e del quale avvertivamo qualcosa senza poterne capire la portata.

comunicazione effettuata in occasione del convegno "Tra memoria e storia. Il Movimento Studentesco Fiorentino (1971-1978)" (9-10.5.2014)

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