A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

Firenze. Movimento degli studenti

di Ferruccio Capelli

1 - Ho accolto con piacere l’invito di Amos Cecchi di ritornare con la memoria sulla vicenda del movimento degli studenti verso la metà degli Anni Settanta: una questione su cui ho avuto mille occasioni e mille ragioni per riflettere a fondo, ma su cui, fino ad oggi, non avevo mai messo a punto una ricostruzione ordinata.
Proviamo innanzitutto ad inquadrare la questione. Amos nella sua relazione, che ricostruisce con puntualità e rigore il nostro dibattito interno, ha messo a fuoco scelte e vicende relative alla prima parte degli anni Settanta, fino alla vigilia di Natale del 1975, al Congresso della FGCI che ebbe luogo a Genova. A me spetterebbe il compito di ricostruire gli anni successivi fino alla Pasqua del 1978, al Congresso della FGCI che si svolse proprio qui a Firenze.
Poco più di due anni, ma in quei due anni cambiò tutto, o meglio - questa è la tesi che vi proporrò - proprio gli studenti e i giovani anticiparono con i loro umori e le loro scelte un cambiamento generale che stava maturando nella politica italiana e non solo italiana: una frattura, una linea di discontinuità, anzi un vero e proprio mutamento epocale. Tra i giovani e gli studenti vi furono le prime avvisaglie ( e furono avvisaglie drammatiche, perfino traumatiche ) del passaggio dai “trent’anni d’oro” del dopoguerra ai “trent’anni ingloriosi” della lunga e ancora non interrotta stagione del liberismo individualista.
Noi che eravamo immersi in quelle vicende giorno per giorno ci rendevamo conto solo in misura marginale di quanto stava accadendo. Ci volle tempo, molto tempo, per avere uno sguardo complessivo e un’interpretazione plausibile su quanto era accaduto.

2 – Torniamo innanzitutto su quanto è stato oggetto della relazione di Amos. I primi anni Settanta furono una bella e straordinaria congiuntura: i mille fermenti sociali e culturali che avevano attraversato gli anni Sessanta si stavano condensando in una nuova prospettiva politica. Il fenomeno, sia pure con scansioni temporali leggermente diverse, riguardava molti paesi. In Italia la forza politica che stava raccogliendo i frutti di quel profondo sommovimento sociale e del nuovo clima culturale era il PCI. I giovani e gli studenti, dopo l’intensa stagione del ’68 nella quale sembrò prevalere un atteggiamento polemico verso il PCI, orientarono largamente le loro aspettative verso questo partito. Noi, la FGCI, raccogliemmo, interpretammo e gestimmo questo nuovo umore che era andato maturando. Le nostre scelte di allora, i nostri dibattiti – così accuratamente ricostruiti da Amos - debbono essere inscritti dentro questo quadro generale.
Lasciatemi ricostruire il clima di quei quattro, cinque anni. Per una serie di contingenze che non è il caso qui neppure di accennare il PCI divenne il coagulo di mille diverse aspettative di cambiamento. Quel partito sembrava allora garantire utopia, ovvero cambiamento profondo, e realismo: qui passava la linea netta di demarcazione con i vari estremismi.
Noi, la FGCI, gli studenti comunisti, stavamo proprio su questa linea di frontiera. Il dialogo con gli estremisti non si interruppe mai, fino al febbraio ’77: alle spalle, sia noi che loro, avevamo il ’68, quelle aspettative e quel clima culturale. Ma noi – questa era la nostra convinzione - avevamo trovato la strada per cambiare senza inseguire sogni generosi ma inconcludenti e senza cadere in pericolosi avventurismi. Stare con noi voleva dire esattamente avere maturato questa scelta.
Per tre, quattro anni questa opzione fu via via sempre più limpida e seducente e raggiunse tra i giovani e gli studenti un consenso di massa. Al punto che nelle prime elezioni studentesche per i Decreti delegati, nella primavera ’75, nonostante la campagna astensionista delle formazioni estremiste, le nostre liste tra gli studenti medi – ma altrettanto accadde nelle prime elezioni dei nuovi organismi universitari -  raccolsero un consenso largamente maggioritario. E’ qui, esattamente in questo scenario, che si iscrive il successo degli OSA (Organismi studenteschi autonomi): ovvero le strutture di movimento che raccoglievano gli studenti che volevano cambiare la scuola e il mondo con la lotta democratica e con le riforme.
Tutta una cultura sembrava garantire una potente chiave interpretativa del mondo. O, almeno, a noi pareva così. Leggevamo del “moderno principe” e lo vedevamo inverarsi in un partito vivo, autorevole, in espansione. Parlavamo di “riforma morale e intellettuale” e toccavamo con mano il protagonismo operaio e la partecipazione dal basso, il trionfo nel referendum sul divorzio e i primi imponenti, coloratissimi cortei del movimento delle donne. La “via italiana al socialismo” appariva una prospettiva teorica e politica convincente e realistica.
Vivemmo dentro quel clima e quell’ebbrezza fino al giugno ’75, fino alla vittoria elettorale nelle elezioni amministrative e regionali del PCI, anzi: fino alla fine dell’anno, fino per l’appunto al congresso di Genova. Dall’inizio del 76, fin dai primi mesi, qualcosa cominciò a cambiare: le orecchie più attente avvertirono presto qualche primo scricchiolio (come non ricordare alcuni articoli sui giovani scritti tra il 74 e il 75 da Pasolini e che poi, a distanza di un paio d’anni, risuoneranno nelle nostre orecchie con un suono quasi profetico!). Da lì a poco fu uno sconquasso, proprio tra gli studenti e tra i giovani. Ed è esattamente questa la storia su cui ora dobbiamo ragionare.

3 – Il Congresso di Genova aveva passato al nuovo gruppo dirigente una FGCI robusta, ben radicata nel paese (più o meno 150.000 iscritti), con strutture vive nelle scuole, gli OSA per l’appunto, e con alcune nuove proposte, tutte da verificare e costruire, come quella dei “consigli” come nuova organizzazione di base degli studenti. Era evidente qui la suggestione dell’esperienza sindacale, i consigli di fabbrica. Soprattutto vi era l’idea che anche gli studenti, proprio come gli operai, fossero un blocco socialmente compatto, con una comunanza di interessi da rappresentare.
Le prime difficoltà cominciarono ad avvertirsi proprio quando tentammo di rendere operativa questa scelta. Per costruire i consigli degli studenti occorreva un consenso di massima delle varie forze studentesche operanti nelle scuole. All’apparenza nessuno sembrava sottrarsi a questa scelta. In realtà si aprì una discussione tormentata sui criteri di elezione (nomina secca, su scheda bianca, come nelle fabbriche, oppure riconoscimento delle minoranze: ad ogni studente due opzioni di voto per tre delegati). Fu il primo segno di qualcosa che si stava incrinando: di consigli degli studenti ne nacquero pochi e quei pochi furono paralizzati, attraversati da incomprensioni e tensioni crescenti tra le forze politiche studentesche. L’idea che si potesse unire tutti gli studenti in una comune rappresentanza – facciamo attenzione: la proposta di unità delle forze sociali e politiche era in quel momento il punto essenziale della strategia politica e sociale del PCI – quell’idea di unità non trovava proprio le basi per decollare nel mondo studentesco. Quella strategia cominciava a incepparsi proprio lì, tra gli studenti, tra quegli studenti che erano stati uno dei punti di forza dell’espansione del consenso del PCI.

4 - Giugno ‘76: elezioni politiche generali. Il PCI consolida la sua avanzata, ma le urne dicono che il primo partito, per di più in ripresa elettorale sul ‘75, è la DC. Comincia la stagione politica della “non sfiducia”, dell’ “astensione” ai governi Andreotti. Un cambio brusco, radicale di clima politico: dopo una lunga, montante euforia ci si addentrava in un’estenuante attesa che per molti significò da subito una brusca disillusione. Le grandi speranze che si erano riversate sul PCI avevano portato solo all’astensione ad un governo diretto dall’uomo che più di ogni altro impersonava la continuità del sistema democristiano.
La delusione fu forte. Tra i giovani il cambiamento di clima fu tanto rapido e immediato quanto palpabile: si cominciò a parlare di “riflusso” e di “privato”, si intravidero (a Bologna, attorno a una radio privata, Radio Alice) i primi segni di una presenza giovanile eterodossa, capace di ironia graffiante e di dissacrazione generalizzata.
In quella situazione nuova mettemmo a punto (in un seminario preparatorio in settembre ad Albinea e in una assemblea nazionale degli studenti della FGCI che si svolse a ottobre in un teatro a Roma, al Teatro delle Arti se ben ricordo) una strategia articolata in due obiettivi di fondo: incalzare con le iniziative di lotta il governo “non - nemico” sui grandi temi delle   riforme della scuola e dell’Università; accompagnare questa iniziativa con la formazione di un’associazione studentesca. Si trattava insomma di riprendere la vecchia e brillante operazione degli OSA con il proposito di ampliarne la rappresentanza   politica e di strutturarla formalmente e stabilmente.
Per alcuni mesi le cose sembrarono camminare nel verso giusto, come quando, nel tardo autunno, con una imponente manifestazione degli studenti romani, proprio noi osammo, per primi, rompere la tregua sociale che aveva accompagnato la nascita del “governo delle astensioni”. Su di noi gravava l’incertezza e l’insoddisfazione per quel governo, ma il nostro tessuto organizzativo restava solido e soprattutto era ancora viva la speranza che prima o poi saremmo riusciti a forzare e sbloccare la situazione e a dare una risposta alle aspettative di cambiamento del mondo giovanile e studentesco. Insomma, erano mesi incerti, con qualche nube all’orizzonte, ma ancora aperti alla speranza.
Dopo le vacanze di Natale, i primi giorni del gennaio ‘77, il quadro cominciò ad incrinarsi rapidamente: arrivavano le prime notizie di qualcosa che si stava muovendo in modo turbolento nelle Università. L’iniziativa era partita dai giovani docenti, gli “assistenti” si diceva allora, esasperati da anni interminabili di incertezze lavorative. Poi il fatto nuovo: l’occupazione dell’Università di Roma, con gli studenti assieme agli assistenti.
A noi non era chiaro cosa stesse davvero accadendo: chi, dove, come, quando avesse deciso questa iniziativa. Alla guida non vi erano i vecchi gruppi estremisti, nel frattempo scioltisi (come Lotta Continua) o comunque mal conciati dopo la disastrosa avventura elettorale della lista “Democrazia Proletaria” alle elezioni politiche del 1976. Vi era qualcosa altro che non conoscevamo.  Ricordo con precisione i nostri commenti mentre osservavamo alcune manifestazioni di quel   gennaio e dei primi giorni di febbraio: alla testa dei cortei non vi erano i “vecchi estremisti”, vi erano “collettivi autonomi” allora poco conosciuti e gli slogan era assai più aggressivi, minacciosi, perfino truculenti. Insomma stava accadendo qualcosa di cui a noi sfuggivano i contorni precisi.
La situazione precipitò all’Università di Roma. Il PCI romano non accettava quell’occupazione, si mosse per rimuoverla e ingaggiò un braccio di ferro per affermare il proprio diritto, diremmo oggi, all’agibilità politica in uno dei luoghi strategici della vita pubblica romana, uno dei punti di forza del proprio radicamento nella città.
Lo scenario si surriscaldò in rapidissima successione fino a giungere all’evento spartiacque, a quel giovedì 17 febbraio in cui Luciano Lama venne cacciato dall’Università a seguito di un assalto da parte degli “autonomi”. Dopo quel 17 febbraio la situazione si accelerò in modo drammatico, giorno per giorno, lungo quell’asse Roma – Bologna che divenne via via sempre più caldo, fino a quell’11 marzo in cui a Bologna venne ucciso dai carabinieri, durante una manifestazione, lo studente Lorusso. Il giorno dopo a Roma, il 12 marzo, si svolse il corteo nazionale del “movimento”. Quella manifestazione, tanto imponente quanto cupa e minacciosa, segnò anche la prima pubblica prova di forza del nuovo sgradevole protagonista della vita pubblica italiana, il “partito armato”.
Siamo ormai nel pieno di quello che è entrato nella storia come il “movimento del ‘77”. Su di esso è stato scritto di tutto: non è mia intenzione ripercorrerne le vicende ed entrarvi nel merito. A me qui interessa solo la rifrazione di quel movimento sulla FGCI e su quell’area studentesca che, nonostante la situazione così complessa e a tratti incandescente, mantenne un rapporto di interazione e di fiducia con noi.

5 – Per noi, per la FGCI e il suo gruppo dirigente, fu un passaggio assai arduo. Innanzitutto cercavamo di capire. Non eravamo stati noi a spingere al braccio di ferro all’Università di Roma, anzi avevamo cercato di dissuadere il partito da quella infelice prova di forza con Luciano Lama. Poi, quando la situazione era precipitata, abbiamo cercato di ridefinire la nostra posizione: la nostra preoccupazione era non perdere i contatti con un mondo studentesco attraversato da questa improvvisa inquietudine, effervescenza, radicalità.
Massimo D’Alema, allora segretario della FGCI, sintetizzò il tutto, in un difficile e importante Comitato Centrale della FGCI che ebbe luogo dopo la cacciata di Lama dall’Università di Roma, nella parola d’ordine “stare nel movimento”. La stessa posizione venne proposta da D’Alema nella relazione che svolse al Comitato Centrale del PCI convocato proprio nei giorni immediatamente successivi alla manifestazione del 12 marzo. Su quella linea si attestò di fatto tutta la FGCI e quella posizione fu dignitosamente mantenuta anche nel difficile confronto con il PCI. Ricordo assai bene quel CC: mi venne data la parola subito dopo un intervento dirompente di Giorgio Amendola. Ho ritrovato e riletto quel mio intervento: era ben costruito, articolato nel ragionamento, ricordo che venne anche apprezzato da Pajetta e dai pochi che non avevano lasciato la sala dopo l’intervento di Amendola. Ricordo anche però che, mentre parlavo, mi chiedevo quale effetto avrebbero potuto avere le mie parole dopo un intervento tanto tranchant quanto autorevole come quello di Giorgio Amendola.
Insomma, noi, la FGCI, cercavamo di attestarci sulla posizione: “stare nel movimento”. Il Partito dal canto suo aveva deciso che il vero problema era l’insorgenza del partito armato: esso doveva essere contrastato con intransigenza. Nel CC del partito alla relazione di D’Alema fece seguito una breve comunicazione di Bufalini: pochi minuti per dire “priorità assoluta: stroncare il nascente partito armato”. In quella differenza di accenti vi erano tutti i dilemmi che avremmo di fatto incontrato e affrontato nei mesi successivi.

6 – “Stare nel movimento”: una scelta che sapevamo difficile e che tale si dimostrò nello sforzo di applicarla. A Roma, in primavera, decidemmo di partecipare a una manifestazione studentesca “unitaria”, del movimento: i partecipanti erano tanti, ma il corteo presentava una cacofonia inquietante. A spezzoni di corteo segnati dalla nostra presenza se ne alternavano altri inneggianti alla “P38”: stare “nel movimento” era davvero complicato. Il giorno dopo L’Unità ci riservò un’ulteriore sgradevole sorpresa: un lungo corsivo, non firmato, che criticava impietosamente quel corteo con toni del tipo: “gli studenti comunisti non devono partecipare a cortei …”. In realtà, scoprimmo poi, era accaduto che un dirigente autorevole del partito (autorevolezza che mantiene ancora oggi: è l’unico nella storia repubblicana ad essere stato eletto per due volte al Quirinale! ) aveva casualmente assistito al corteo e aveva deciso di esprimere con una modalità inconsueta la sua severa valutazione: aveva incaricato un giornalista di fiducia di stendere quel severo corsivo.
Era davvero complicato per noi, per la FGCI, tenere dritta la barra del timone in quei frangenti, ma, come si vide rapidamente, era difficile anche per il PCI! Lo si colse assai bene In occasione dell’evento clou dell’autunno, il raduno nazionale ( e internazionale! ) del movimento che si svolse a Bologna dal 23 al 25 settembre. Il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, dal comizio del palco dell’Unità aveva apostrofato quei giovani che si stavano preparando a confluire a Bologna come “poveri untorelli”. Nonostante ciò il Partito si impegnò allo spasimo per fare di Bologna, durante i tre giorni del raduno studentesco, una “città aperta”, impegnata ad accogliere e discutere in tutti modi possibili con quel mondo giovanile.
Poco dopo accadde un altro fatto che suscitò una viva emozione: un giovane studente di Lotta Continua, Walter Rossi, venne assassinato a Roma, il 29 settembre, durante un raid fascista. I funerali, svoltisi il 1 ottobre, si trasformarono in un’immensa manifestazione giovanile: quella volta vi parteciparono tutti, senza bandiere, e senza provocazioni. E alla testa del corteo, in rappresentanza del PCI, vi era proprio Paolo Bufalini che, dopo la manifestazione, di sua penna, scrisse il comunicato ufficiale del Partito che valorizzava la “grandiosa e civile risposta degli studenti”. Mentre scriveva quel comunicato Bufalini non era ancora stato raggiunto dalla notizia che dal corteo studentesco di Torino si era staccato uno spezzone che aveva assalito con bombe molotov un bar, “L’angelo azzurro”, provocando la morte per bruciature di un giovane, Roberto Crescenzio, che si trovava lì per caso. L’aggettivo “civile” scomparve così dal comunicato ufficiale del PCI.

7 – La questione, al fondo, era molto chiara: tenere aperto il dialogo e l’interlocuzione con il mondo giovanile e nel contempo contrastare con ogni forza il fenomeno della violenza e dell’insorgente terrorismo. I mesi successivi al 12 marzo, con l’irruzione sulla scena del “partito armato”, misero a prova sempre più dura questa nostra strategia.
L’ “autonomia operaia” prese sempre più il controllo di un movimento in fase ormai declinante. Generalmente sui libri di storia il ’77 viene ricordato con le foto di una manifestazione svoltasi a Milano il 14 maggio, quando bande di autonomi scatenate dopo un corteo studentesco uccisero l’agente Custrà. Quelle foto ancora oggi suscitano sconcerto, sgomento, dolore: giovanissimi con il volto coperto, che impugnano pesanti pistole e che, a gambe piegate, cercano la posizione migliore per sparare su bersagli umani!
Nel contempo dilagava l’azione dei gruppi terroristi: Brigate Rosse e, poi, Prima Linea e altri gruppi minori, iniziarono una serie devastante di attentati che culmineranno, la primavere successiva, nel rapimento e assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Il Congresso della FGCI di Firenze – dove si interrompe questa narrazione - si svolse proprio mentre era in corso il rapimento del Presidente della DC.
La FGCI si trovava proprio nella frontiera più avanzata ed esposta nella lotta contro la violenza terroristica. Non era facile argomentare in modo convincente: si pensi, per dare un’idea della discussione aperta, alla polemica tra Amendola e Sciascia sulla difesa di “questo stato”. Le difficoltà assai serie che incontrava il PCI a convincere intellettuali e cittadini a impegnarsi nella lotta contro il terrorismo erano moltiplicate per noi giovani: da una parte le bande armate, dall’altra i corpi repressivi dello stato diretti in modo tutt’altro che cristallino ( si pensi ai piduisti che pullulavano allora al Ministero degli Interni diretto da Francesco Cossiga ). In mezzo, noi, la FGCI, che argomentavamo per la democrazia, la tolleranza, la civiltà.
Possiamo dire, in fase di bilancio complessivo, che trovammo la forza di tenere e che tutta la FGCI seppe attestarsi su queste posizioni. Qualche ammiccamento fuori luogo vi fu, forse, solo nella direzione del nostro giornale, “La Città Futura”: forse si trattava di curiosità culturale o, forse, più probabilmente, di ricerca dell’effetto a ogni costo, di esibizione di una spregiudicatezza di maniera.

8 - Nel mezzo di questa autentica bufera trovammo le forze e la tenacia anche per riprendere il filo del ragionamento sull’organizzazione studentesca. Dopo l’estate ’77 l’onda del movimento era ormai in fase calante: ricominciammo a ragionare dell’Associazione degli studenti. Facemmo anche alcuni primi tentativi per avviarla raccordando le esperienze di diverse città. Si trattava in realtà di un lavoro preparatorio – impossibile da concretizzarsi in quel contesto - che avrebbe dato i frutti più avanti: all’Associazione studentesca si arriverà con molti anni di ritardo, in tutt’altro contesto, con una modalità organizzativa appoggiata al sindacato.
Di certo, pur in un contesto alterato da fatti così dirompenti, riuscimmo a tenere aperti nelle scuole e nelle Università spazi di ragionevolezza, a fare risuonare voci che, invece che di “nuovi bisogni” o di “assalto allo stato”, parlavano di contrasto alla cultura della violenza, di difesa della democrazia, di riforma della scuola e dell’Università, di nuova qualità del lavoro, di coesione sociale e di civiltà. Insomma in quei mesi durissimi di lotta politica e ideale noi, e con noi tanti giovani, fummo capaci di scelte chiare su questioni essenziali della lotta politica e della convivenza civile. A distanza di anni ci sentiamo di dire che non fu poca cosa.

9 - Ultima questione: in avvio di questa relazione ho accennato ai prodromi di un mutamento epocale che ci veniva segnalato proprio dai giovani e dagli studenti. Proviamo ora a chiarire il senso di questa affermazione.
C’è un punto di fondo che differenzia il ‘77 dal ‘68. Nel ‘68 la domanda prepotente di nuove libertà individuali - libertà nei rapporti sociali, nei costumi, nella vita pubblica - continuava a poggiare sulla convinzione che essa potesse essere raggiunta entro uno scenario di emancipazione delle classi oppresse e di espansione della giustizia sociale. Probabilmente il ‘68 è il punto più alto di quella tendenza che ha segnato tutti i “trent’anni d’oro”, ovvero la convergenza tra la domanda di libertà personale e l’esigenza di giustizia sociale.
Il ‘77 ha segnato la prima plateale rottura di questa tendenza e di questo equilibrio. Nella cultura del “movimento” la libertà e i bisogni dell’individuo sono “a prescindere”. Il tutto era avvolto da un involucro di radicalità e impazienza, dall’esaltazione del gesto radicale, ma al fondo l’idea che cominciava a diffondersi era che ognuno dovesse pensare a se stesso. Una rottura radicale, prodromo di una tendenza che di lì a poco sarebbe diventata irreversibile. I “trent’anni ingloriosi” segnano il tramonto della generosa speranza del dopoguerra: dai primi anni ottanta in poi il terreno sarebbe stato occupato da un nuovo individualismo aggressivo, quel vero e proprio iper - individualismo che ha dato il segno più profondo a questa nostra epoca. I presupposti di tutto ciò cominciarono a manifestarsi proprio allora, tra i giovani e gli studenti, in quel turbolento 1977!
Come si vede, nuovi e difficili furono gli avvenimenti e i processi sociali e culturali con cui ci dovemmo misurare in quel breve lasso di tempo, dal gennaio 1976 alla Pasqua 1978, tra un Congresso e l’altro della FGCI. Di certo per noi furono “anni assai interessanti”.

comunicazione effettuata in occasione del convegno "Tra memoria e storia. Il Movimento Studentesco Fiorentino (1971-1978)" (9-10.5.2014)

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