A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

Ameni inganni e mediocri utopie: illusioni e disillusioni di un militante del Movimento studentesco fiorentino degli anni settanta

di Giuseppe Guida

«Gli uomini saggi saranno sempre inclini a scorgere nella
vita politica un che di puerile. La saggezza che trova un serio interesse
nella politica sarà quindi la saggezza di uomini che
in un certo senso sono, o sono rimasti, dei bambini»
(Leo Strauss, Gerusalemme e Atene, Torino, Einaudi, 1998, p. 88)

Esistono generazioni che riescono e altre che falliscono, ha scritto Ortega y Gasset. E quando penso al destino della nostra generazione sono generalmente più incline ad includerla fra le seconde che fra le prime. Certo non si può dire che sia mancato a noi un repertorio di idee, a partire dal quale poter provare a modellare adeguatamente le nostre forme di vita. Ma di un simile repertorio abbiamo sperimentato ben presto anche l’obsolescenza. Nessuno dei progetti che abbiamo collettivamente concepito ha mai trovato la benché minima realizzazione. La nostra vita da adulti non ha realizzato le promesse dell’adolescenza. E sebbene una parte limitata di noi abbia scelto di continuare a militare, non senza difficoltà, sotto bandiere sempre più scolorite; i più hanno cercato di compiere il faticoso sforzo di rivedere i principi ricevuti, per cercare di rimetterli in sintonia con il proprio più intimo sentire.
Iniziai ad avvicinarmi al Movimento studentesco fiorentino nel 1973, quando frequentavo il primo anno di liceo presso il Liceo-Ginnasio Galileo Galilei di Firenze. Non si trattava della mia prima esperienza politica. Ne avevo già fatta qualche altra negli anni precedenti. Quando frequentavo la IV ginnasio (1971), ero stato avvicinato da un giovane, più volte ripetente, che mi aveva condotto nella sede di non so quale gruppuscolo. Era una cantina piuttosto squallida, dove tutti fumavano e mancava l’aria. I discorsi che sentii in quell’occasione mi sembrarono tutti piuttosto inconcludenti e rivolti più che altro contro altri gruppuscoli di estrema sinistra. Decisi perciò di non partecipare ad altre riunioni del genere. Più significativa fu l’esperienza che feci l’anno successivo, quando frequentavo la V ginnasio. Aderii allora ad un gruppo pacifista, che si ispirava alle idee di Aldo Capitini. Organizzammo una manifestazione a favore dell’obiezione di coscienza al servizio militare, che riuscì bene (allora quasi tutte le manifestazioni riuscivano bene). Per raccogliere adesioni alla manifestazione ebbi i primi contatti con il mondo politico fiorentino. Conobbi La Pira ed Enriques Agnoletti. Il primo, soprattutto, mi sembrò una figura decisamente stravagante: non parlava il linguaggio della politica, ma quello della mistica; e interpretava ogni evento storico come una manifestazione del grande scontro biblico fra angeli e demoni. Conobbi anche Marco Pannella, che non suscitò in me alcun sentimento di simpatia. Si atteggiava a giovane senza esserlo, e mi sembrava affetto da una grave forma di narcisismo. Certo, dette alla nostra iniziativa un sostegno senza riserve, ma insistette anche perché ci iscrivessimo al Partito Radicale, cosa che, né a me, né alla maggior parte degli altri componenti del gruppo, appariva opportuna. L’anno successivo, separatici definitivamente dall’area radicale, decidemmo di aderire al comitato del Movimento studentesco fiorentino, che si era costituito nella nostra scuola per iniziativa di altri studenti, fra i quali emergevano Maurizio Quercioli, Stefano Marcelli e Domenico Bartolini. Tutti e tre provenivano da famiglie comuniste e, nei loro interventi durante le assemblee, sapevano far emergere gli echi di un mondo che si dilatava ben oltre il nostro, nello spazio e nel tempo. Quando facevano riferimento al movimento operaio, per esempio, davano la sensazione di non parlare di qualcosa che conoscessero soltanto per sentito dire; e nell’auspicare una scuola riformata si ricollegavano consapevolmente ad una battaglia parlamentare in atto, della quale, fra l’altro, era allora protagonista uno dei docenti della nostra scuola, divenuto parlamentare del PCI: Marino Raicich. Il PCI iniziò ad apparirmi ben presto l’unico possibile luogo d’incontro della nostra generazione con il mondo degli adulti, ovvero con una tradizione ed una storia iniziata prima di noi. Mi rendevo conto che, in assenza di un simile incontro, qualsiasi proposito di cambiamento sarebbe rimasto puramente velleitario. Avvertivo anche, però, che si trattava di un incontro non facile, in cui si rischiava costantemente di smarrire la propria anima, di dissipare cioè quella novità, quella purezza di cuore, di cui ci sentivamo collettivamente portatori. Nel Movimento studentesco fiorentino la consapevolezza di questo rischio esisteva. Ed anche per questo volevamo proporci come un movimento autonomo, non identificabile né con la FGCI né, tanto meno, con il PCI. Tutti ci presentavamo, perciò, come gelosi custodi dell’autonomia del movimento; e del resto il PCI non manifestava alcuna intenzione, almeno in apparenza, di stigmatizzare un simile atteggiamento.  La costituzione di movimenti di massa rientrava pienamente, infatti, nella strategia politica dei comunisti italiani, i quali, al pari dei più grandi partiti, sorti nella prima metà del Novecento, si sentivano poi chiamati al compito di dare forma alla folla incomposta del popolo, esercitando su di essa la propria egemonia. Del resto, il Movimento studentesco non poteva costituire alcun pericolo per il PCI. I principi del centralismo democratico valevano anche all’interno del movimento studentesco; e ciò garantiva il prevalere degli orientamenti dei vertici, per lo più omogenei a quelli del gruppo dirigente del PCI. Certo il dibattito fra di noi era aperto e spesso vivace, ma tutti eravamo convinti che l’unità fosse un valore imprescindibile, e che pertanto l’individualità di ciascuno dovesse essere sacrificata, se necessario, affinché il movimento si potesse esprimere con una voce sola. Al di là di eventuali dissensi, comunque, tutti vivevamo la nostra scelta politica come una scelta di libertà, sebbene, con discrezione, il PCI finisse per delineare chiaramente l’ambito in cui la presunta autonomia del Movimento studentesco fiorentino avrebbe potuto essere esercitata. Nonostante qualche sporadica manifestazione d’insofferenza, comunque, tale ambito non ci appariva né soffocante né angusto. I vertici del PCI fiorentino, in particolare, erano ben disposti a considerare con paterna accondiscendenza più d’una manifestazione d’intemperanza (si pensi alla lotta contro don Gregorelli). Guardavano con sospetto qualche volta agli eccessi di simpatia che, di tanto in tanto, potevano manifestarsi in alcuni di noi nei confronti di posizioni della sinistra extraparlamentare, e ci invitavano a stringere rapporti, piuttosto, con i giovani socialisti e anche, soprattutto dopo che fu lanciata la proposta del compromesso storico, con i giovani democristiani. Per lo più non eravamo particolarmente felici di accogliere tali inviti. I giovani socialisti ci apparivano personaggi molto mediocri, desiderosi di ottenere visibilità ad ogni costo, anche se non erano in grado di dare al movimento degli studenti un significativo contributo di idee. Erano una diretta emanazione del partito di appartenenza, e grazie ad esso sembravano ansiosi di voler fare una rapida e brillante carriera. Quanto ai giovani democristiani, o appartenenti a movimenti come quello di “Comunione e liberazione”, essi divennero visibili solo a partire dal 1975, in occasione della prima elezione degli organi collegiali. Non avevano interesse a dialogare con noi, ma piuttosto a contrapporsi a tutto ciò che aveva odore di comunismo. Generalmente non partecipavano alle assemblee studentesche e quando, sporadicamente, vi mettevano piede, lamentavano il fatto che non venisse loro consentito di parlare. Purtroppo non avevano tutti i torti. Frequentemente, appena uno di loro si azzardava a prendere in mano il microfono, veniva zittito dai fischi e dalle urla degli esponenti di “Lotta continua”. Noi non condividevamo questi atteggiamenti, ma non eravamo per lo più sufficientemente determinati ad impedirli.
Con i militanti di “Lotta continua” eravamo spesso in contrasto nelle assemblee, e ciò nondimeno a loro, più che ad altri gruppi politici, ci sentivamo politicamente affini. Anche quando si discuteva animatamente, e persino quando volava qualche cazzotto, non cessavamo di considerarli «compagni». Avvertivamo nei loro discorsi un entusiasmo e una passione civile simili ai nostri. Al pari di loro eravamo animati da un antifascismo spesso intollerante, e che ci esponeva al rischio di ritorsioni violente. Ricordo in particolare quando, nel 1974, Andrea Montagni, leader di Lotta continua nel nostro liceo, fu aggredito sotto casa. Ci stringemmo tutti attorno a lui.
Ma soprattutto, al pari dei «compagni» di “Lotta Continua”, eravamo convinti che le sorgenti dell’avvenire fossero in noi; e che la nostra fede politica fosse in armonia con il corso del mondo. Un marxismo, più o meno genericamente appreso, delineava l’orizzonte teorico dei nostri dibattiti. Loro ci qualificavano spesso come “revisionisti”, atteggiandosi ad integerrimi custodi di non so quale marxismo ortodosso. Noi rimproveravamo loro la ristrettezza della proposta politica, che si risolveva in un rivoluzionarismo parolaio, inneggiante ad una guerra civile che non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo. Non si trattava soltanto di discussioni accademiche, ma della necessaria cornice entro la quale si collocavano concretissime scelte quotidiane, come ad esempio l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’istituzione scolastica. Secondo molti degli esponenti di “Lotta continua” di quegli anni, la scuola era al servizio delle esigenze di «riproduzione» del «capitale»; ed una sua eventuale riforma non sarebbe stata né probabile né particolarmente significativa. Di qui il limitato interesse che essi avevano nei confronti delle nostre proposte di sperimentazione didattica; e un interesse ancor minore manifestavano verso i nostri tentativi di stabilire un confronto con gli insegnanti o con i genitori di sinistra. Secondo i «rivoluzionari» più rigorosi, tutti gli insegnanti, in base al loro ruolo sociale, avrebbero dovuto essere considerati, «servi dei padroni», anche se alcuni di essi erano stati antifascisti, avevano partecipato alla Resistenza o avevano subito la drammatica esperienza della deportazione (ve ne erano alcuni nel nostro Liceo). Quanto ai genitori, la cui presenza era stata introdotta nella scuola nel ’75 con i decreti delegati, ad essi non avrebbe dovuto essere riconosciuto alcun ruolo.
Diverso era ovviamente il nostro punto di vista. Per noi la riforma della scuola, non solo era possibile ed auspicabile, ma costituiva un obiettivo centrale della nostra iniziativa politica. Come si evince chiaramente dalla relazione svolta da Amos Cecchi dinanzi all’assemblea nazionale degli studenti della FGCI nel 1974 (Ariccia 15-16-17 ottobre), i giovani comunisti, e con essi il movimento degli studenti, si sentivano chiamati al compito di «salvare» la scuola italiana dal «degrado», dallo stato di «abbandono», nel quale l’avrebbe lasciata una «borghesia» divenuta incapace di esercitare la propria funzione «egemonica». Non è difficile riconoscere, nelle argomentazioni usate da Cecchi in quell’assemblea, la presenza di vecchi stili di pensiero: quel catastrofismo che aveva caratterizzato gran parte del marxismo della Seconda Internazionale, e al quale era sottesa la convinzione che il corso necessario della storia dell’Occidente sarebbe giunto ben presto dinanzi all’alternativa fra socialismo o barbarie.  Ma, al di là del carattere certamente datato di questo modo di pensare, peraltro allora molto diffuso nella cultura politica del gruppo dirigente del PCI, le proposte avanzate per riformare la scuola erano tutt’altro che vaghe. Vi si coglie l’intento di creare una scuola più consona a promuovere l’uguaglianza, piuttosto che la disuguaglianza; e il bisogno di coinvolgere tutte le forze di sinistra, sia interne che esterne alla scuola, in una battaglia politica comune. Oltre che di diritto allo studio e di lotta contro l’autoritarismo, già in quegli anni si discuteva di elevamento dell’obbligo, di biennio unico nella scuola media superiore, e di possibili approcci alle diverse discipline meno nozionistici e più stimolanti per gli studenti. A quest’ultimo tema ero allora particolarmente sensibile. Ricordo che invitai più volte altri giovani del movimento ad una riflessione al riguardo. Questa riflessione trovò posto nel 1975 in un documento del Movimento studentesco fiorentino (contenuto nel materiale che ho depositato), alla cui stesura presi direttamente parte. A rileggerlo oggi quel documento non può che apparire generico e predicatorio; ciò nonostante esso fu giudicato allora anche dagli insegnanti del CISID un utile contributo alla discussione; e il fatto che provenisse da studenti, apparve cosa pressoché eccezionale.
Va ricordato, comunque, che al di là di alcuni casi sporadici, limitati essenzialmente agli insegnanti del CISID (fra i quali ricordo Gigliola Sbordoni, Ragazzini, Taurini, Scipione Guarracino), non riuscimmo a coinvolgere gli insegnanti fiorentini in un ampio dibattito politico-pedagogico sulla riforma della scuola. Nel mio liceo, in modo particolare, anche i pochi insegnanti di sinistra, da cui speravamo di ricevere un contributo, diffidavano delle nostre proposte di sperimentazione didattica. Si rendevano conto che vi si nascondeva, camuffata da proposta culturale, una mediocre opera di propaganda politica. In effetti le nostre «sperimentazioni» si risolvevano per lo più in declamazioni retoriche e generiche circa i valori dell’antifascismo e della Resistenza (in tutti i documenti del Movimento studentesco fiorentino si sottolineava la centralità dell’educazione all’antifascismo nella scuola riformata e si invitava a celebrare, negli anni 1974-75, il trentesimo anniversario della Resistenza, che allora non trovava posto nei programmi didattici). Solo in un’occasione ricordo che fummo in grado di mettere in atto un’iniziativa ben riuscita. Fu quando invitammo a parlare nella nostra scuola, sempre sul tema del fascismo, Mario G. Rossi, docente di storia presso l’Università di Firenze. Rossi ci dette allora una dimostrazione, non solo di come si potesse parlare del fascismo senza ricadere nei soliti luoghi comuni, ma soprattutto di come si potesse fare una lezione di storia in maniera completamente diversa da quella cui eravamo abituati: una lezione cioè in cui alla noia della ripetizione si sostituisse il piacere della scoperta.
Più che fra gli insegnanti, le nostre iniziative, volte all’innovazione didattica, e soprattutto allo sgretolamento dell’autoritarismo che ancora regnava nella scuola, trovarono un certo consenso fra i genitori. Nel 1975, in occasione della prima elezione degli organi collegiali, si costituì nel nostro Liceo un comitato, e poi una lista, di genitori di sinistra. Laura Abbozzo, ricercatrice del CNR e madre di una ragazza che faceva parte del Movimento studentesco fiorentino, ne divenne il leader riconosciuto. La ricordo con simpatia e ammirazione. Si batté senza riserve per evitare che le nostre numerose violazioni dei rigidi regolamenti scolastici (assemblee non autorizzate ecc.) finissero per avere effetti pesanti sui nostri voti di condotta e di profitto. Dedicò poi parte del suo tempo libero a riordinare la biblioteca scolastica del nostro Liceo, ovviamente senza ricevere alcun compenso; e sempre gratuitamente si offrì di impartire delle lezioni in materie scientifiche a studenti in difficoltà che glielo avessero richiesto. I genitori che si raccolsero attorno a lei avevano con noi un rapporto privilegiato. Non ci consideravano i loro ragazzi, ma i loro alleati; e addirittura, talvolta, ci chiedevano indicazioni su come muoversi.
Sebbene l’interesse per concreti processi di riforma, in primis nella scuola, fosse in noi autentico, non ci faceva piacere essere qualificati come riformisti. In quegli anni era frequente del resto, nel lessico degli esponenti del PCI, la distinzione fra «riformista» e «riformatore», ove il primo termine, a differenza del secondo, manteneva ancora un significato negativo. All’origine di questa bizzarra distinzione stava probabilmente il giudizio che Togliatti, all’inizio degli anni sessanta, aveva formulato sul riformismo dei primi governi di centro-sinistra. Nel luglio del 1962, in un articolo su Rinascita (a. XIX, n. 13, 28 luglio 1962), Togliatti aveva definito molto chiaramente la differenza fra le posizioni dei riformisti e quelle dei comunisti. Questi ultimi – aveva scritto - non smarriscono mai l’obiettivo finale del movimento operaio, che è la costruzione della società socialista; e dunque approvano e sostengono quelle riforme che costituiscono un passo avanti verso quest’obiettivo. I riformisti, al contrario, hanno smarrito quest’obiettivo finale; e tendono perciò ad isolare le riforme che propongono dalla lotta per superare il regime capitalistico.
Se si esaminano con attenzione i numerosi documenti del Movimento studentesco fiorentino e della FGCI sulla riforma della scuola, è facile constatare come il nesso fra questo genere di riforma e l’«obiettivo finale» del «superamento del capitalismo» sia sempre efficacemente ribadito. La già citata relazione di Cecchi ad Ariccia  costituisce a questo riguardo un esempio emblematico. Ma analoghe considerazioni si possono riscontrare in una nota della commissione scuola della FGCI fiorentina, databile fra la fine del 1975 e l’inizio del 1976. Nella nota si asserisce che «i problemi della scuola non potranno essere completamente risolti all’interno di questo sistema economico»; e che peraltro la riforma della scuola, proposta dal PCI fin dal 1972, non intendeva essere «funzionale alle tendenze di questo modello economico». Piuttosto essa ambiva a «contribuire a un radicale mutamento del meccanismo di sviluppo finora perseguito». Inoltre, tanto nella relazione di Cecchi quanto nella nota, si asserisce che tutte le riforme da noi auspicate non sarebbero state concepibili in assenza di movimenti di massa; ed era questo, forse, l’aspetto più significativo del nostro particolare riformismo. Non ci interessavano progetti messi a punto nel chiuso delle aule parlamentari per opera di un ristretto gruppo di tecnici o professionisti della politica. Le sole riforme che potevano dirsi tali erano, per noi, quelle che giungevano a coronamento di grandi lotte sociali, in seguito all’iniziativa di movimenti che avrebbero poi spinto, necessariamente e spontaneamente, la società italiana verso il suo traguardo finale: il socialismo. Il principale protagonista del processo riformatore non sarebbe stato, quindi, il parlamento, ma, semmai, il movimento sindacale, di cui avremmo voluto creare qualcosa di analogo fra gli studenti, ai fini della partecipazione ad una lotta che avrebbe avuto identiche finalità.
Non si può dire che orientamenti simili non trovassero allora una sponda nel sindacalismo italiano. Se si prendono in esame, per esempio, saggi e discorsi di Trentin, non è difficile trovarvi esplicitamente teorizzato un «riformismo» che richiama per molti aspetti quello auspicato dal Movimento studentesco. L’allora segretario della FIOM era per noi, del resto, non solo un punto di riferimento, ma qualcosa di più: un simbolo, un mito. In un libro uscito nel ’77 (che raccoglieva interventi scritti negli anni precedenti) Trentin sostiene che lo scopo delle lotte sindacali non debba essere tanto quello di migliorare la distribuzione del reddito, quanto piuttosto quello di intaccare i rapporti di potere. Il mutamento della fabbrica, della sua organizzazione del lavoro, del suo rapporto con la scuola e con la città, si sarebbe, infatti, necessariamente rivelato incompatibile con gli assetti sociali e istituzionali prodotti dalla società capitalistica; e avrebbe richiesto perciò «un mutamento profondo nelle strutture del territorio e nelle forme di governo locale e nazionale». Muovendo «dal cuore del sistema di produzione», la lotta della classe operaia si sarebbe dovuta estendere quindi all’intera società, innescando processi riformatori di vasta portata. Di qui il ruolo politico eminente che veniva riconosciuto da Trentin al sindacato.
Sebbene non considerassimo la scuola altrettanto centrale quanto la fabbrica nel modo di produzione capitalistico, eravamo convinti che anch’essa fosse prossima, per così dire, al «cuore del sistema di produzione»; e quindi dalla lotta per superare metodi, contenuti, strutture gerarchiche in essa vigenti, sarebbe dovuta scaturire un’esigenza di superamento del capitalismo, analoga a quella che scaturiva dalla lotta di classe. Inoltre, come in fabbrica, anche nella scuola sarebbero dovuti nascere organismi di democrazia di base funzionali alla direzione di questo tipo di lotta. Si auspicava perciò, in molti documenti del Movimento studentesco fiorentino, la costituzione di comitati studenteschi, composti da delegati di classe, i quali avrebbero dovuto talvolta affiancarsi, ma più spesso contrapporsi agli organi collegiali istituiti dai decreti delegati. Nei fatti finirono per essere un’inutile duplicazione delle forme di rappresentanza studentesca già previste.
All’individuazione di percorsi politici che procedessero dalla fabbrica allo stato, o dalla scuola allo stato, davamo in quegli anni anche una sorta di significato cosmico-storico. In essi veniva a condensarsi infatti, per noi, il nucleo centrale della «lezione» che, come comunisti italiani, avevamo la pretesa di impartire al mondo. Per quale motivo, tanto le esperienze di tipo socialdemocratico quanto quelle di tipo sovietico avevano finito per smarrire la strada che conduceva al socialismo? Perché, rispondevamo con sconcertante ingenuità, era mancata una relazione costante ed efficace fra lotta sociale e lotta politica, fra movimenti sociali e partiti; e ciò aveva provocato l’isterilirsi degli uni e degli altri, costringendo la storia a segnare momentaneamente il passo. Ma grazie a noi, comunisti italiani, essa avrebbe ripreso la sua marcia in avanti.
Le molte manchevolezze di una simile prospettiva appaiono oggi evidenti a chiunque. E tuttavia non deve sorprendere che allora essa riscuotesse grande consenso. Di certo risultava più affascinante di tanto chiacchiericcio pseudorivoluzionario; e poteva incantare anche le menti più riflessive. In effetti nell’anno scolastico 1975/76 il Movimento studentesco fiorentino si rafforzò, facendo confluire sulle proprie posizioni una parte della sinistra extraparlamentare. Nel corso di quell’anno, in occasione delle elezioni degli organi collegiali, vennero presentate in molte scuole liste unitarie, che talvolta comprendevano anche “Lotta continua” (presentatasi con liste proprie l’anno precedente). Soprattutto: le più importanti manifestazioni studentesche vennero convocate da un cartello di forze che andava da Gioventù Aclista ad Avanguardia operaia, e comprendeva Lotta continua e la Fgsi. Se si esamina la piattaforma uscita da un incontro del 22 gennaio 1976 (ne dettero notizia i giornali il giorno successivo), e in base alla quale si convocava uno «sciopero generale nazionale» degli studenti, sarà facile rendersi conto che tutti i principali temi oggetto d’interesse del Movimento studentesco fiorentino vi erano compresi: dalla riforma della scuola all’occupazione giovanile; e gli obiettivi indicati erano sostanzialmente i nostri. Effettivamente, nella prima metà del 1976, sembrò che si stesse finalmente avverando il nostro sogno: quello di dare vita ad un grande movimento studentesco autonomo e unitario, ma capace di convogliare al suo interno una pluralità di energie e ispirazioni ideali, qualcosa di simile al sindacato, non quello che esisteva, ma quello vagheggiato da Trentin. Certo, a Firenze, ci sentivamo in quel periodo anche un po’ orfani, per l’assenza di Cecchi e di Bassi, passati al partito in seguito alle vicende del congresso genovese della FGCI, già ricordate da Giovanni Stefanelli con parole che condivido pienamente. In quel congresso si dimostrò come il PCI fosse per molti aspetti una sorta di «istituzione totale», e quanto pesasse ancora l’eredità dello stalinismo. Non credo tuttavia che l’assenza di Cecchi e di Bassi abbia pregiudicato in modo significativo lo sviluppo dell’esperienza del Movimento studentesco fiorentino. Altre furono le ragioni della fine di quell’esperienza; e vanno ricercate, non già nelle scelte politiche della FGCI, ma in quelle del PCI, che al riformismo fondato sul primato delle lotte sociali, preconizzato da Trentin (e da Ingrao), preferì il riformismo dall’alto, la «rivoluzione passiva», la pratica consociativa e trasformistica della «solidarietà nazionale».
Con l’avvio della politica di «solidarietà nazionale» il cartello di forze politiche giovanili, che avevano promosso le manifestazioni studentesche nella prima metà del 1976, si disgregò. Improvvisamente nelle scuole e nell’Università ci ritrovammo isolati. Tutte le volte che cercavamo di prendere la parola nelle assemblee, rischiavamo la nostra incolumità. Ricordo che, quando mi capitava di incontrare all’università qualche mio ex compagno di scuola, militante di “Lotta continua”, a mala pena mi salutava. Una volta chiesi ad una mia vecchia amica le ragioni di tanta ostilità; e mi rispose che lei, come tanti altri, si era sentita tradita dal PCI. Sebbene, infatti, non si fosse mai riconosciuta in quel partito, vi aveva visto comunque, negli anni precedenti, una sorta di garanzia per la nostra generazione e per la sinistra. Ora invece i giovani di sinistra non erano più «garantiti» da nessuno. Mi resi conto che per lei, e verosimilmente per molti altri, il PCI era allora una sorta di figura paterna, alla quale ci si doveva polemicamente contrapporre, ma nella consapevolezza che essa sarebbe comunque rimasta lì, salda ed amica, pronta a soccorrerci nei momenti di difficoltà. Ora questa immagine rassicurante del PCI rovinosamente precipitava.
Nel corso del ’77 molti giovani appartenenti alla sinistra extraparlamentare, che prima ci consideravano con rispetto, se non proprio con simpatia, rifluirono nell’area dell’Autonomia. Ricordo con angoscia quando li vedevo sfilare in corteo mostrando il simbolo della P38. Ricordo anche con orrore un’affollata assemblea nella facoltà di Lettere, in cui la notizia del rapimento di Moro venne accolta con un applauso.
Nella situazione catastrofica, che si produsse per noi agli inizi del ’77, i vertici della FGCI ci invitavano ancora a «stare nel movimento». Forse non riuscivano a rendersi conto che i giovani comunisti potessero essere anche rifiutati, più o meno violentemente, da un grande movimento giovanile, sebbene solo qualche anno prima ne costituissero parte integrante. Poiché allora non si aveva l’abitudine di contestare quel che proveniva dai vertici, cercammo di ricreare le condizioni di un movimento autonomo degli studenti che non ci fosse ostile, ma fu un clamoroso fiasco. Quando ci presentavamo, nelle scuole o all’Università, come rappresentanti di un simile movimento, venivamo derisi. Ci si accusava di non avere il coraggio di dire chi effettivamente eravamo, e cioè dei «figicciotti», facenti parte di un partito che sosteneva il governo e guidava la «repressione» contro il movimento. Alla fine quindi, in assenza di simpatizzanti e di potenziali alleati, la scelta di ripresentarci come FGCI divenne nei fatti l’unica possibile.
Certamente le dichiarazioni dei dirigenti del PCI non ci aiutarono. Paradossalmente, in quegli anni, pratiche consociative e movimento del ’77 si incrementarono a vicenda. Dopo la «cacciata» di Lama dall’Università di Roma, Berlinguer qualificò i giovani del movimento come «untorelli». E questi videro nelle dichiarazioni degli esponenti del PCI un’altra prova del consumarsi di un tradimento, e un ulteriore motivo per accentuare forme di radicalismo eversivo. Al tempo stesso, la crescita del movimento del ’77, unita al profilarsi sempre più inquietante della minaccia terroristica, induceva i vertici del PCI a rapporti di collaborazione sempre più stretti con il governo. Tale crescita dimostrava, agli occhi dei fautori della solidarietà nazionale, quanto fosse rischioso dare la stura a movimenti sociali che non si sarebbe stati poi in grado di controllare. Così la linea movimentista di Trentin (e di altri) fu battuta e il Movimento studentesco morì.
A quanto ricordo, furono proprio i leaders storici del PCI, quelli che avevano subito maggiormente la violenza della dittatura fascista (Amendola, Pajetta ecc.), ad apparirmi in quegli anni i più convinti fautori della politica di solidarietà nazionale. Probabilmente, segnati dalle loro precedenti esperienze, essi temevano forse più di altri che si potesse ricreare una situazione simile a quella del “biennio rosso”, quando gli operai delle grandi fabbriche dell’Italia settentrionale dettero vita ad un vasto movimento, non sufficientemente forte per prendere il potere, ma grande abbastanza per allarmare la «borghesia» e spingerla ad abbandonare il terreno della democrazia politica. Che questo genere di timori esistessero nel gruppo dirigente del PCI, è dimostrato peraltro da numerosi interventi di Berlinguer, il quale parlò in quegli anni di «diciannovismo» e disse che si era creata in Italia una situazione «di tipo cileno».  L’idea che la «trama» della democrazia italiana potesse essere ancora troppo debole, appariva confermata, del resto, dalle numerose stragi fasciste rimaste impunite, nonché dai numerosi veti all’ingresso del PCI nell’area di governo, posti dall’Amministrazione americana. Ciò giustificava pienamente, agli occhi di molti dirigenti comunisti, un’opzione di carattere trasformistico, artificiosamente nobilitata con un discutibile riferimento alle tesi gramsciane circa la «guerra di posizione».
Sebbene nei giorni del rapimento di Moro la politica di solidarietà nazionale sia apparsa anche a me assolutamente opportuna, i timori di cui essa si alimentava erano sicuramente eccessivi. Ben presto i danni di quella politica mi sono sembrati superiori ai vantaggi. Fra i danni, oltre alla fine del Movimento studentesco, includerei anche una persistente coazione a ripetere, che da allora ad oggi ha condizionato, e condiziona, una parte cospicua della sinistra italiana, spingendola a forme di trasformismo dettate spesso da ragioni assai meno nobili di quelle di allora.
Ha avuto degli eredi il Movimento studentesco della prima metà degli anni settanta? Ho visto che una simile domanda emerge in vari interventi. Non credo che vi siano stati eredi diretti, poiché dal ’77 al ’79 venne fatta attorno a noi terra bruciata. Forse però il nostro movimento un erede indiretto lo ebbe nel movimento pacifista, che si sviluppò nelle scuole all’inizio degli anni ottanta. Nelle grandi manifestazioni contro l’istallazione degli Euromissili rividi giovani che mi sembrava somigliassero a noi. Analoghe alle nostre erano la loro determinazione, la passione civile, l’energia morale. Del movimento per la pace di quegli anni, una FGCI, divenuta assai meno accondiscendente nei confronti del PCI di quella degli anni precedenti, tornò ad essere una componente essenziale. C’erano tuttavia fra noi e gli adolescenti degli anni ottanta delle differenze profonde, che mi sono apparse via via più chiare nel corso degli anni successivi. Per noi l’orizzonte del futuro era ancora denso di aspettative. Credevamo nel prossimo avvento del «regno della libertà». Al contrario nei movimenti pacifisti, e poi in quelli ecologisti, l’orizzonte del futuro si era sensibilmente contratto: non si osava più sperare in un mondo migliore, poiché era già tanto se si fosse riusciti a conservare quello che c’era. Sebbene sostenuta da elevate motivazioni ideali, iniziava ad emergere, in altri termini all’inizio degli anni ottanta, anche attraverso i più significativi movimenti giovanili, quell’«ecologia della sopravvivenza» di cui ha poi parlato Christopher Lasch. Del resto anche in noi le precedenti speranze iniziarono ben presto a vacillare; e gli ultimi articoli di Berlinguer, in cui si faceva ancora riferimento al «superamento del capitalismo», ci sembrarono per lo più perorazioni retoriche, ormai prive di credibilità ed efficacia.
Nella prima metà degli anni settanta, invece, una fede, spesso superstiziosa, nella storia era ancora molto diffusa. Neppure gli intellettuali di sinistra vi si sottraevano, ad eccezione forse di uno, assolutamente geniale: Pier Paolo Pasolini. Ricordo che nel 1975, in occasione del festival nazionale dell’Unità che si tenne a Firenze, Pasolini partecipò ad un dibattito sui giovani comunisti. A discutere con lui c’erano Cecchi e Luporini, i quali riproposero, in modi diversi, ma in definitiva convergenti, lo schema di filosofia della storia che si ripeteva allora, condito in tutte le salse, nelle riunioni di partito: la «crisi italiana» mostrava ormai le «contraddizioni insanabili» del capitalismo; ed era perciò lecita la certezza di ciò che si sperava, vale a dire del socialismo, anche se, mentre il vecchio moriva, il nuovo «stentava a nascere». Naturalmente i giovani sarebbero stati l’«avanguardia» di questo presunto «nuovo» che nasceva. Pasolini rovesciò completamente un simile schema. Non presentò i giovani comunisti come un’«avanguardia», ma come un’«isola», la quale rischiava, ogni giorno di più, di essere sommersa dal mare dell’omologazione che la circondava. Speranze salvifiche non erano quindi, in tale situazione, minimamente giustificate. Ricordo che, nella platea molto numerosa di quanti assistettero a quel dibattito, la stragrande maggioranza si mostrò ostile a Pasolini. Qualcuno gli dette del «fascista». Neppure io, allora, ero d’accordo con lui. In realtà Pasolini era uno dei pochi in quegli anni a mantenere il suo sguardo limpido, senza per questo misconoscere le ragioni di quella solidarietà fraterna che ancora ci accomunava.

comunicazione effettuata in occasione del convegno "Tra memoria e storia. Il Movimento Studentesco Fiorentino (1971-1978)" (9-10.5.2014)

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