A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

mercoledì 11 giugno 2014

Nove massime di deontologia giudiziaria

di Luigi Ferrajoli (*)

(intervento in occasione del XIX Congresso di Magistratura Democratica - Roma, 31.1/3.2.2013 - download)

La riforma della Giustizia sembra diventata una delle priorità del Governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene, come emerge dalle stesse dichiarazioni del Presidente del Consiglio dopo l'esito delle elezioni europee del 25 maggio scorso. Sui contenuti della riforma ancora non vi sono elementi ufficiali su cui esprimersi, anche se alcune recenti dichiarazioni del Ministro dalla Giustizia, Andrea Orlando, fanno intravedere più linee di intervento. A questo quadro si sono adesso sovrapposti gli effetti sull'opinione pubblica di alcune clamorose indagini condotte da diverse Procure della Repubblica (in particolare quella sull'EXPO a Milano e quella sul MOSE a Venezia), che sembrano determinare un'accelerazione (e forse una sterzata) della riflessione e dell'iniziativa politica su questi temi. In tale contesto ci è parso di grande interesse riproporre l'intervento svolto dal Prof. Luigi Ferrajoli in occasione dell'ultimo congresso di Magistratura Democratica (2013): per quanto contenga alcuni riferimenti all'attualità del momento in cui è stato pronunciato, vi sono sviluppate riflessioni ed indicazioni di grande interesse e rilievo che - anche in questa fase - sarebbe necessario che venissero tenute presenti, dal legislatore e dagli operatori della giustizia.

Grazie innanzitutto dell'invito a questo vostro XIX congresso di Magistratura Democratica: un invito che si ripete ormai da 37 anni, tanto che posso dire di aver partecipato a tutti o quasi tutti i congressi di MD, fin dal primo congresso, qui a Roma, nel lontano 1971, quando ero ancora un magistrato.
Parlerò, in questo intervento, di deontologia giudiziaria. Sono ormai vent'anni, dalle vicende di Tangentopoli e Mani Pulite, che la magistratura è al centro della nostra vita politica. Il ruolo svolto dalla giurisdizione è stato in tutti questi anni decisivo nella difesa della legalità e dello stato di diritto. E' questo, io credo, un fatto su cui gli storici concorderanno. In una lunga fase di crisi della nostra democrazia, segnata dalla corruzione della vita pubblica, dai conflitti di interesse al vertice dello Stato, dalle pretese di onnipotenza delle forze di maggioranza, dalle aggressioni da parte di queste stesse forze alla Costituzione repubblicana, al lavoro e ai diritti sociali, il ruolo della giurisdizione è stato decisivo nell'arginare lo sviluppo dell'illegalità pubblica e il crollo di credibilità delle nostre istituzioni, e perciò nel salvaguardare la tenuta dello stato di diritto e della democrazia.
Tuttavia, nello scontro che inevitabilmente ne è seguito tra poteri politici e magistratura, la difesa incondizionata della giurisdizione ha finito per generare in una parte dell'opinione pubblica ed anche, purtroppo, tra molti giudici, la concezione del potere giudiziario come potere buono e salvifico. E, soprattutto, quella difesa ha finito per far trascurare, o peggio avallare prassi giudiziarie illiberali e anti-garantiste, in contrasto con quella stessa legalità che esse pretendono di difendere. E rischia, se compiuta da magistrati, di decadere a difesa corporativa, in contraddizione con il ruolo di Magistratura Democratica che, non dimentichiamo, nacque sulla rottura del vecchio corporativismo di ceto e sulla critica pubblica dei provvedimenti giudiziari illegittimi. E' perciò una riflessione critica e autocritica che oggi si richiede alla magistratura: nei confronti non solo e non tanto di singoli provvedimenti giudiziari, quanto soprattutto nei confronti di atteggiamenti, culture e subculture antigarantiste, che vanno diffondendosi nel mondo della giustizia ed anche in una parte della sinistra.
Francesco del Tadda, statua della Giustizia (1581)
Firenze, piazza Santa Trinita
La tesi da cui dobbiamo muovere è il riconoscimento della crescente espansione, avvenuta in questi anni, del ruolo della giurisdizione, ben al di là delle classiche funzioni della giustizia civile e penale destinate, nel vecchio Stato liberale, prevalentemente ai cittadini. Questa espansione è dovuta a molteplici fattori, il primo dei quali è la struttura costituzionale della nostra democrazia: da un lato la crescente domanda di giustizia alla giurisdizione sollecitata dalle violazioni dei diritti costituzionalmente stabiliti - in tema di ambiente, tutela dei consumatori, tecnologie elettroniche, questioni bioetiche - domande cui le altre istituzioni del sistema politico non danno risposte; dall'altro i controlli di costituzionalità sulle leggi invalide e, soprattutto, i controlli di legalità sui titolari di pubblici poteri, sulle corruzioni, sul malaffare, sulle collusioni con poteri illegali.
Ebbene, è chiaro che da questa positiva espansione della giurisdizione è conseguita - lo diceva stamattina Franco Ippolito - una crescita enorme quanto inevitabile del potere giudiziario, della responsabilità dei giudici e del ruolo politico della giurisdizione, che richiederebbe un rafforzamento delle sue condizioni di legittimità: della sua rigida soggezione alla legge, del rigoroso rispetto delle garanzie. Temo invece che stiamo assistendo a un indebolimento di tutti questi limiti e vincoli e perciò delle stesse fonti di legittimazione della giurisdizione.
lo non voglio entrare nel merito di concrete vicende giudiziarie, che conosco solo sommariamente, poco più che dalla lettura dei giornali, né tanto meno nelle polemiche e negli attacchi di questi giorni tra magistrati. Dirò tuttavia di essere rimasto fortemente impressionato dal protagonismo, dalla supponenza e dal settarismo di taluni magistrati messo in scena dai media dapprima nello svolgimento del loro ruolo di pubblici ministeri, e poi nella campagna politica nella quale si sono gettati in questi mesi. Può darsi che questi magistrati e quanti con loro simpatizzano siano in totale buona fede. Ma questo rende ancor più necessaria e urgente, ai fini della legittimazione dei giudici come garanti dei diritti fondamentali, la ridefinizione di una deontologia giudiziaria diametralmente opposta alla concezione e alla pratica della giurisdizione da loro espressa. Io credo che quanto più riconosciamo l'intrinseca politicità della giurisdizione e difendiamo l'impegno civile e politico dei magistrati, tanto più rigorosa, per la credibilità del ruolo di garanzia dei diritti che assegniamo alla magistratura - anche questo lo diceva stamattina Franco Ippolito - deve essere la deontologia professionale dei magistrati. Il mio contributo a questo congresso, come antico esponente di MD, sarà perciò l'indicazione, di nove massime deontologiche, soprattutto in materia di giustizia penale, suggeritemi proprio da quella pratica e da quella concezione e che vanno ben al di là delle ovvie regole stipulate nel codice deontologico elaborato dall'Associazione Nazionale Magistrati.

1. La consapevolezza del carattere “terribile” e “odioso” del potere giudiziario
La prima regola di deontologia giudiziaria democratica è forse la più sgradevole. Consiste nella consapevolezza, che sempre dovrebbe assistere qualunque giudice o pubblico ministero, che il potere giudiziario è un “potere terribile”, come lo chiamò Montesquieu (De l'esprit des lois [l748], in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1951, II, XL, p. 398). Non dunque un potere buono o giusto, ma è un potere “odioso”, come scrisse Condorcet (Idées sur le despotisme, [l789], in Oeuvres de Condorcet, Firmin Didot, Paris 1847, t. IX, p. 155): odioso perché, diversamente da qualunque altro pubblico potere - legislativo, politico o amministrativo - è un potere dell'uomo sull'uomo, che decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato. Dunque, un potere terribile e odioso - soprattutto quello penale - che solo le garanzie possono limitare, ma non annullare, e che è perciò tanto più legittimo quanto più è limitato dalle garanzie.
2. La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale e perciò di un margine irriducibile di illegittimità dell'esercizio della giurisdizione
La seconda regola muove anch'essa da una consapevolezza che dovrebbe sempre assistere l'esercizio della giurisdizione: quella di un margine irriducibile di illegittimità del potere giudiziario, il quale può essere ridotto, ma non eliminato, dal rigoroso rispetto delle garanzie, prima tra tutte, come prosegue il passo sopra citato di Condorcet, la “stretta soggezione del giudice alla legge”. Se è vero infatti che la legittimazione della giurisdizione si fonda sulla verità processuale accertata mediante l'applicazione della legge e che la verità processuale è sempre una verità relativa e approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto, allora anche la legittimazione del potere giudiziario - come de resto la legittimazione di qualunque altro potere pubblico, a cominciare dalla rappresentatività dei poteri politici - è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa.
C'è dunque una specifica regola deontologica che, soprattutto in materia penale, riguarda l'accertamento della verità. In primo luogo l'accertamento della verità giuridica, cioè l'interpretazione delle leggi. Questa regola consiste nel rigoroso divieto, in omaggio al principio di stretta legalità e tassatività, dell'analogia in malam partem e dell'interpretazione estensiva. In materia penale il giudice non può, non diciamo inventare figure di reato, ma neppure estendere a fenomeni vagamente analoghi o connessi le fattispecie previste dalla legge. Per esempio, nel famoso processo sulla trattativa Stato/mafia, non esistendo nel nostro ordinamento il reato di trattativa, mi è difficile capire come si possa, senza ledere il principio di tassatività e il divieto di analogia, accomunare nel reato di minaccia a corpo politico sia gli autori della minaccia, sia quanti ne furono i destinatari o i tramiti o le vittime designate. Ovviamente possiamo ben considerare quella trattativa un fatto gravissimo di deviazione politica. Ma di responsabilità politica appunto si tratta. E la separazione dei poteri va difesa non solo dalle indebite interferenze della politica nell'attività giudiziaria, ma anche dalle indebite interferenze della giurisdizione nella sfera di competenza della politica.
3. Il valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità dell'errore in fatto e in diritto
La terza regola della deontologia giudiziaria riguarda l'accertamento della verità fattuale, e consiste nel costume e nella pratica del dubbio conseguente a una terza consapevolezza: che la verità processuale fattuale non è mai una verità assoluta o oggettiva, ma è sempre, come dicevo una verità probabilistica e che è sempre possibile l'errore. Intendo dire che le sole verità assolute sono quelle tautologiche della logica e della matematica, mentre in materia empirica - nelle scienze naturali, nella storiografia e quindi anche in qualunque indagine o accertamento processuale - la verità assoluta è irraggiungibile e per questo si richiede, quale debole surrogato di un'impossibile certezza oggettiva, quanto mano la certezza soggettiva, cioè il libero convincimento del giudice; che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di conferme e di induzioni e che quindi, nonostante le prove e il convincimento, qualunque sentenza può essere sbagliata perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto da essa ritenuto. E' su questo tratto epistemologico del giudizio che si basa questa terza regola della deontologia giudiziaria: il valore del dubbio, il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio - da cui il bel nome “giuris-prudenza” - come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria e in generale delle discipline giuridiche, la consapevolezza, in breve, che sempre è possibile l'errore, sia di fatto che di diritto. Per questo è inammissibile che un magistrato del Pubblico Ministero scriva un libro intitolato “Io so” a proposito di un processo in corso da lui stesso istruito.
4. La disponibilità all'ascolto delle opposte ragioni e l'indifferente ricerca del vero
Di qui una quarta regola deontologica: la disponibilità dei giudici, ma anche dei pubblici ministeri, all'ascolto di tutte le diverse ed opposte ragioni e l'esposizione alla confutazione e alla falsificazione, giuridica oltre che fattuale, delle ipotesi accusatorie. E' il classico principio popperiano della falsificabilità quale banco di prova della consistenza e della plausibilità di qualunque tesi empirica. E' in questa disponibilità sia del giudizio che della pubblica accusa ad esporsi e a sottoporsi alla confutazione da parte di chi dell'accusa deve sopportare
le penose conseguenze che risiede il valore etico, oltre che epistemologico, del pubblico contraddittorio nella formazione della prova. Quella disponibilità esprime un atteggiamento di onestà intellettuale e di responsabilità morale, basato sulla consapevolezza epistemologica della natura non più che probabilistica della verità fattuale. Essa esprime lo spirito stesso del processo accusatorio, in opposizione all'approccio inquisitorio, il cui tratto inconfondibile e fallace è invece la resistenza del pregiudizio accusatorio a qualunque smentita o controprova, cioè la petizione di principio, in forza della quale l'ipotesi accusatoria, che dovrebbe
essere suffragata da prove e non smentita da controprove, è apoditticamente assunta come vera e funziona da criterio di orientamento delle indagini, cioè da filtro selettivo delle prove - credibili se la confermano, non credibili se la contraddicono - e risultando perciò infalsificabile.
Dipende principalmente da questa disponibilità all'ascolto di tutte le opposte ragioni l'imparzialità e la terzietà del giudizio, ed anche delle indagini istruttorie. Il giudizio, come scrissero Cesare Beccaria e ancor prima Ludovico Muratori, deve consistere nell' "indifferente ricerca del vero”. E' su questa indifferenza, che è propria di ogni attività cognitiva e comporta la costante disponibilità a rinunciare alle proprie ipotesi di fronte alle loro smentite, che si fonda il processo che Beccaria chiamò “informativo”, in opposizione a quello che chiamò invece "processo offensivo", nel quale, egli scrisse, "il giudice diviene nemico del reo" e "non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell'infallibilità che l'uomo s'arroga in tutte le cose" (Dei delitti e delle pene (1766), § XVII, pp. 45-46).
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, edizione del 1774
E' chiaro che questa quarta regola deontica esclude in primo luogo l'idea dell'imputato come nemico e, più in generale, ogni spirito partigiano o settario. Ma essa esclude anche l'idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un'arena nella quale si vince o si perde. Il Pubblico Ministero non è un avvocato. E il processo non è una partita nella quale, per riprendere le parole di Beccaria, l'inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi. Per questo considero non solo infondato ma immorale il parametro delle capacità professionali introdotto dall'art. 11 del D.Lgs. n. 160 del 2006 sulla valutazione della professionalità dei magistrati che eleva a titolo di merito “l'esito degli affari nelle successive fasi e gradi del giudizio”, cioè ogni conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie o delle sentenze nei gradi successivi.
5. La comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso
La quinta regola della deontologia giudiziaria è quella dell'equità, che è una dimensione conoscitiva del giudizio, di solito ignorata, che non ha nulla a che vedere con le altre due tradizionali dimensioni conoscitive del ragionamento giudiziario, cioè con la corretta interpretazione della legge nell'accertamento della verità giuridica e con l'argomentata valutazione delle prove nell'accertamento della verità fattuale. Questa dimensione riguarda la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso, di ciascuna vicenda sottoposta a giudizio un fatto e un caso irriducibilmente diversi da qualunque altro, pur se sussumibile nella medesima fattispecie legale. Giacché ogni fatto è diverso da qualunque altro, e il giudice, ma ancor prima il Pubblico Ministero non può sottrarsi alla comprensione equitativa dei suoi specifici e irripetibili connotati. Ed è chiaro che la comprensione del contesto, delle concrete circostanze, delle ragioni singolari del fatto comporta sempre un atteggiamento di indulgenza, soprattutto a favore dei soggetti più deboli. E questa indulgenza equitativa non può non intervenire nella decisione della misura della pena detentiva, che non può ignorare, come ha ricordato Luigi Marini, il carattere disumano, riconosciuto dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, delle condizioni di vita dei detenuti, in contrasto con il principio costituzionale che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”; una consapevolezza che dovrebbe sempre suggerire l'applicazione della pena detentiva solo quando è inevitabile e nella misura del minimo previsto dalla legge.
6. Il rispetto di tutte le parti in causa
La sesta regola deontologica è il rispetto per le parti in causa, incluso l'imputato, chiunque esso sia, soggetto debole o forte, incluso il mafioso o il terrorista o il politico corrotto. Il diritto penale nel suo modello garantista equivale alla legge del più debole. E non dimentichiamo che se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l'imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono altrettante leggi del più debole. Questa regola del rispetto delle parti in causa, e in particolare dell'imputato, è un corollario del principio di uguaglianza, dato che equivale al postulato della “pari dignità sociale” di tutte le persone, inclusi quindi i rei, enunciato dalla nostra Costituzione. Ma essa è anche un corollario del principio di legalità, in forza del quale si è puniti per quel che si è fatto e non per quel che si è, si giudica il fatto e non la persona, il reato e non il suo autore, la cui identità e interiorità sono sottratte al giudizio penale. Aggiungo che nel processo penale questo rispetto per l'imputato vale a fondare quell'asimmetria che sempre deve sussistere tra la civiltà del diritto e l'inciviltà del delitto, che è la principale forza della prima quale fattore di delegittimazione e di isolamento della seconda.
7. La capacità di suscitare la fiducia delle parti, anche degli imputati
La settima regola deontologica riguarda il rapporto con l'opinione pubblica e con le parti in causa. Il magistrato, lo si è detto più volte, non deve cercare il consenso della pubblica opinione: un giudice deve anzi essere capace, sulla base della corretta cognizione degli atti del processo, di assolvere quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l'assoluzione. Le sole persone di cui i magistrati devono riuscire ad avere non già il consenso, ma la fiducia, sono le parti in causa e principalmente gli imputati: fiducia nella loro imparzialità, nella loro onestà intellettuale, nel loro rigore morale, nella loro competenza tecnica e nella loro capacità di giudizio. Ciò che infatti delegittima la giurisdizione è non tanto il dissenso e la critica, che non solo sono legittimi ma operano come fattori di responsabilizzazione, bensì la sfiducia nei giudici e ancor peggio la paura generate dalle violazioni delle garanzie stabilite dalla legge proprio da parte di chi la legge è chiamato ad applicare e che dalla soggezione alla legge ricava la sua legittimità. Per questo la fiducia delle parti in causa nei loro giudici è il principale parametro e banco di prova del tasso di legittimità della giurisdizione. Non dimentichiamo mai che tutti coloro che subiscono un giudizio saranno anche i giudici severissimi dei loro giudici, di cui ricorderanno e giudicheranno l'imparzialità o la partigianeria, l'equilibrio o l'arroganza, la sensibilità o l'ottusità burocratica. Di cui soprattutto ricorderanno se hanno violato o garantito i loro diritti. Solo in questo secondo caso difenderanno la giurisdizione e la sua indipendenza come una loro garanzia.
8. Il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare
L'ottava regola, connessa alla settima, è una regola di sobrietà e riservatezza. Ciò che i magistrati devono evitare con ogni cura, nell'odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di protagonismo giudiziario e di esibizionismo. Si capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile potere, della notorietà, dell'applauso e dell'autocelebrazione come potere buono. Ma questa tentazione vanagloriosa deve essere fermamente respinta. La figura del “giudice star” o “giudic estella”, come viene chiamato in Spagna, è la negazione del modello garantista della giurisdizione. Soprattutto è inammissibile - e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione - che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati. E invece abbiamo assistito in questi mesi a trasmissioni televisive desolanti, nelle quali dei pubblici ministeri parlavano dei processi da loro stessi istruiti, sostenevano le loro accuse, lamentavano gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle loro indagini, addirittura discutevano e polemizzavano con un loro imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contraddittorio. Qui siamo di fronte non solo alla lesione di quel costume del dubbio e del rispetto per le parti in causa di cui ho prima parlato, ma anche a una strumentalizzazione del proprio ruolo istituzionale, talora con accenti di pura demagogia.
Da destra: Antonio Ingroia, Michele Santoro, Mara Carfagna e Lara Comi
nel corso della puntata del 24 gennaio 2013 di Servizio Pubblico - La 7
Sappiamo bene, per averlo sperimentato in questi anni, quanto il populismo politico sia una minaccia per la democrazia rappresentativa. Ma ancor più minaccioso è la miscela di populismo politico e di populismo giudiziario. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che diventa intollerabile allorquando serve da trampolino per carriere politiche.
9. Il rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione
Vengo cosi alla nona e ultima regola deontologica. Essa consiste non solo, come è ovvio, nel non piegare il giudizio penale a fini politici, ma anche nel non dar luogo neppure al più lontano sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione. Oggi l'immagine della magistratura presso il grande pubblico rischia di identificarsi con quella di tre pubblici ministeri divenuti noti per le loro inchieste, i quali hanno dato vita a una lista elettorale capeggiata da uno di loro, promossa da un altro con il contributo del partito personale del terzo. E' un'immagine deleteria, che compromette la credibilità della magistratura, oltre che delle stesse inchieste che hanno reso noti quei magistrati.
Ebbene, quell'immagine pone all'ordine del giorno la questione della partecipazione dei magistrati alle competizioni elettorali. Ovviamente non si può vietare ai magistrati di presentarsi alle elezioni: sarebbe una violazione dell'art. 5l della Costituzione. Aggiungo che non avrei mai pensato, fino a qualche anno fa, a una simile questione: ci sono stati magistrati eletti in parlamento - penso agli amici carissimi Salvatore Senese, Luigi Saraceni e Elena Paciotti e a tanti altri magistrati - che sono stati modelli esemplari di rigore, sia come giudici che come parlamentari. Ma in tempi come questi, quando è così frequente pur se di solito ingiustificata l'accusa di uso politico e strumentale della giurisdizione, è sufficiente il semplice sospetto che l'attività giudiziaria o anche solo la notorietà acquisita attraverso i processi siano strumentalizzate a fini politici ed elettorali a giustificare una più rigorosa disciplina della partecipazione dei magistrati alle competizioni elettorali. Per questo trovo convincenti, in proposito, almeno le indicazioni suggerite da Giuseppe Cascini in un recente articolo sulla non candidabilità del magistrato nel luogo in cui ha esercitato le funzioni e poi nell'esclusione del suo rientro in tale luogo dopo la fine del mandato elettorale. Forse sarebbero opportune le dimissioni di chi si candida a funzioni pubbliche elettive: un onere che, se anche non stabilito dalla legge, dovrebbe oggi essere avvertito da qualunque magistrato come un dovere elementare di deontologia professionale.

Ho così completato il mio sommario elenco di massime deontologiche: massime forse scontate, così voglio sperare, per la maggior parte dei magistrati, ma purtroppo non per tutti. Sono perciò convinto che esse siano essenziali a disegnare l'identità dei magistrati democratici. Io credo che Magistratura Democratica, proprio perché teorizzò e praticò fin dalle sue origini l'impegno politico dei giudici nella società e la loro scelta di campo in favore dei soggetti deboli i cui diritti costituzionali sono di fatto insoddisfatti, non può oggi sottrarsi alla responsabilità di ridefinire con rigore i limiti e le forme di quell'impegno e di quella scelta: perché l'uno e l'altra non risultino stravolti, fino a snaturarsi e a smarrire, o peggio a capovolgere, la loro valenza democratica e garantista. Ciò che è oggi in discussione non è solo l'identità di MD, ma anche la credibilità dell'intera magistratura.

Luigi Ferrajoli, già magistrato e tra i fondatori di Magistratura Democratica, è oggi il filosofo del diritto italiano più noto all’estero. Fra i suoi lavori più importanti «Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale» (1989), «Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia» (2007), «Diritti fondamentali» (2003) e «Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana» (2011), tutti editi da Laterza e tradotti in più lingue. Recentemente è uscito per Il Mulino «Dei diritti e delle garanzie», una conversazione di Luigi Ferrajoli con Mauro Barberis, nella quale sono avanzate alcune originali proposte di riforma del sistema giuridico e politico: dall’organizzazione della giustizia alla riforma dei partiti, dal rapporto tra economia e politica al reddito di cittadinanza, dai beni comuni alla e-democracy.


Per saperne di più
- Intervento del guardasigilli Andrea Orlando al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura (14.5.2014)
- Intervento del guardasigilli Andrea Orlando al convegno "250 anni dei delitti e delle pene", promosso dall'Unione delle Camere Penali Italiane in occasione del 250° della pubblicazione dell'opera di Cesare Beccaria (16-17.5.2014)
- Così riformerò la giustizia, intervista ad Andrea Orlando di Giovanni Tizian (L'Espresso, 9.6.2014)
- La finta riforma tra pugno di ferro e uomini della provvidenza, documento della Giunta dell'Unione delle Camere Penali Italiane (19.5.2014)

Al 31 maggio 2014 nelle carceri italiane erano detenute 58861 persone (di cui 19939 straniere), a fronte di una capacità di accoglienza pari a 49588 posti; i detenuti in attesa di primo giudizio erano 10178, quelli condannati con sentenza definitiva 37085 (dati ufficiali del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria).

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