A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

mercoledì 26 marzo 2014

Riflessioni sulle riforme istituzionali più imminenti

di Piero Brunori

Sulla riforma del Senato, giudicata inevitabile, sono state esposte le ipotesi più strane, da quelle semplicistiche di un'abolizione, a quelle più complicate ed artificiose. Cosicché è veramente arduo individuare quelle più autorevoli.
E' quindi necessario cercare di farsi un'opinione ragionata. Rilevando in primo luogo che è mancata una riflessione del reale obbiettivo a cui dovrebbe rispondere la riforma.
Si tengono presenti, di solito, due finalità: lo sveltimento dell'iter legislativo e la garanzia della governabilità.
Per la prima esigenza, si arriva a proporre - contro l'opinione della maggior parte dei costituzionalisti - la semplice soppressione della seconda camera. Ignorando che così si contraddice in pieno il principio della "repubblica delle autonomie"; il quale rappresenta non solo un sistema organizzativo, ma una delle caratteristiche peculiari della nostra Costituzione, che potremmo a distanza di anni rimpiangere di aver frettolosamente eliminato. Un uguale effetto avrebbe la riduzione del Senato a un organismo composito con compiti sostanzialmente consultivi o confermativi.
Non è dimostrato che all'origine della lentezza dell'attività legislativa sia la cosiddetta "navetta" fra le due camere, che viceversa - come è risultato anche di recente - garantisce quella possibilità di ripensamento che mette al riparo dal rischio di fraintendimenti o di colpi di mano.
Rischio che diventa veramente grave quando si parla di leggi costituzionali, che nella doppia lettura nella doppia camera hanno l'unica garanzia contro una sostanziale "flessibilizzazione" della Costituzione, e quindi contro l'avvento di regimi autoritari.
Più seria è la preoccupazione dell'instabilità governativa: e cioè degli inconvenienti derivanti dalla possibilità che nelle due camere si abbiano maggioranze non coincidenti. Ma non si deve dimenticare che la fiducia ai governi è una, e non la più importante, delle funzioni del Parlamento (tanto che la sfiducia parlamentare costituisce un episodio piuttosto raro nella storia repubblicana). Le altre sono il controllo sull'attività governativa, e - prima delle altre - la funzione legislativa. Pertanto, le ipotesi di riforma devono tener presente l'opportunità di un adeguato svolgimento di queste due funzioni, per cui è essenziale il rispetto del principio della rappresentanza: cercando poi di trovare un rimedio per l'ipotesi (inevitabile con qualsiasi sistema elettorale) che si verifichino divergenze fra le maggioranze delle due camere.
La stabilità non si garantisce con l'uno con l'altro sistema elettorale, come è dimostrato dalle esperienze di qualunque regime politico democratico; si tratta di un problema che si affronta solo adeguando il meccanismo del rapporto fra parlamento e governo. La soluzione estrema è quella statunitense, in cui le elezioni popolari sono duplici: quelle del presidente e quelle del parlamento, senza nessuna interdipendenza fra di loro (con la conseguenza della possibilità di conflitto, risolubile soltanto per via politica).
Occorre quindi eliminare il bicameralismo solo per gli atti con cui si concede la fiducia all'esecutivo (fiducia iniziale o richiesta dal Governo). E quindi attribuire la funzione di dare o negare la fiducia non separatamente alle due camere, ma alle camere riunite in seduta comune.
Cioè ad un organo già previsto per l'elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale.
L'incertezza che potrebbe paventarsi per un organo così formato sarebbe superata attribuendo al Senato un numero di componenti molto basso (meno di cento senatori, eletti in numero di 2/7 per Regione, a seconda delle rispettive popolazioni); che quindi non altererebbe sostanzialmente gli equilibri derivanti dalla composizione della prima Camera.
L'elezione dei senatori dovrebbe essere abbinata a quella dei consigli regionali, e rinnovata pro quota ad ogni rinnovo di ciascun consiglio. Ciò assicurerebbe ai senatori la reale rappresentatività della popolazione regionale, e di conseguenza un elevato potere contrattuale nel far valere gli interessi delle rispettive Regioni. L'elezione del Senato assumerebbe così un significato sganciato dalle dinamiche politiche nazionali, e quindi perderebbe l'eventuale potenzialità destabilizzante sulle sorti del Governo; ed anzi, in virtù del suo svolgimento frazionato (data la scadenza non simultanea dei consigli regionali), permetterebbe un rinnovo graduale con minore impatto sugli equilibri governativi.
Ovviamente un Senato così composto non potrebbe essere sciolto. Sarebbe però compatibile con la presenza dei senatori a vita, consentendo loro la partecipazione all'attività legislativa come parlamentari, ma rendendo improbabile un loro peso determinante nella votazione della fiducia in seduta congiunta.
In tale modo, l'eventuale disparità di orientamento fra Camera e Senato non comporterebbe una situazione di stallo, ma sarebbe risolubile mediante la deliberazione delle camere riunite; ciò agli effetti sia del conferimento o revoca della fiducia al Governo, sia dell'approvazione di leggi significative per l'azione governativa su cui fosse posta la questione di fiducia. La questione di fiducia - sempre in quel caso - non dovrebbe essere considerata come ultima ratio, ma come normale sottolineatura dell'essenzialità di determinati interventi legislativi per l'attuazione del programma di governo.
In sintesi, il superamento del bicameralismo perfetto si avrebbe non sopprimendo una camera, o confinandola ad una funzione subalterna, o riducendola a un coacervo di rappresentanti di istanze eterogenee, ma prevedendo:
- da una parte un Senato formato da pochi parlamentari qualificati essenzialmente dalla rappresentanza degli interessi regionali;
- dall'altra la confluenza delle due camere in un organo comune, in cui una delle componenti avrebbe la prevalenza numerica, e quindi la pratica preponderanza nel determinarne l'orientamento complessiva.


Fra le varie riforme istituzionali si annovera di solito la soppressione delle Province, soprattutto per ragioni di risparmio di spese. In realtà il problema è quello della funzionalità del relativo livello di governo; sul che si sono dette molte cose superficiali.
Si è confuso, in primo luogo, il decentramento amministrativo con la funzionalità dell'ente territoriale autarchico, dimenticando che la dislocazione degli uffici periferici dello Stato non abbisogna di una coincidenza con l'ente locale. Si deve invece riconoscere che l'ente-provincia, nato tardivamente ad imitazione del Comune, non è recuperabile agli effetti della partecipazione delle popolazioni al governo decentrato.
Fino a tempi abbastanza recenti, la Provincia viveva in funzione del Prefetto, ed aveva prima di tutto il compito di supporto logistico degli uffici provinciali dello Stato. La successiva attribuzione di competenze proprie si è innestata su una struttura viziata dalle sue origini: condizionata cioè dal rapporto con il suo capoluogo (sede del Prefetto), e d'altra parte organicamente debole di per se stessa.
Dal primo punto di vista, si è assistito ad una impressionante proliferazione delle circoscrizioni provinciali, in riferimento non alle esigenze del territorio, ma al prestigio del capoluogo. Nei confronti dell'amministrazione comunale del capoluogo si è verificato un rapporto di sovrapposizione o di concorrenza delle funzioni, tanto da produrre duplicazioni di iniziative, conflitti di competenza (specie per quanto attiene al governo del territorio), rivalità fra capoluogo e "contado".
Dall'altro lato, la Provincia si è rivelata poco adatta a svolgere compiti ulteriori e più specialistici di quelli tradizionali, per mancanza risorse tecniche e strutture amministrative. Tanto da determinare un notevole ricorso a personale precario o "esternalizzazione" di funzioni anche importanti. Con la conseguenza di gravi carenze nella gestione tecnica dei servizi e nel controllo della spesa.
Pertanto, il mantenimento dei compiti attualmente attribuiti o l'assegnazione di compiti ulteriori all'Amministrazione Provinciale non garantisce un livello dell'azione amministrativa tale da giustificare l'esistenza di una rappresentanza elettiva e della conseguente struttura politico-amministrativa. Gli stessi compiti potrebbero essere svolti da uffici regionali (eventualmente decentrati su base provinciale o comprensoriale), o da uffici di Comuni fra loro aggregati.
L'esperienza dei molteplici tentativi, risalenti agli anni '80, di individuare ambiti ottimali per l'esercizio di funzioni di governo o per l'erogazione di servizi dimostra quanto sia illusorio prevedere rappresentanze elettive per ognuno di questi livelli, quasi che questa sia l'unica forma di partecipazione e di controllo dal basso dell'azione amministrativa. La trasparenza, l'informazione, la responsabilità dei funzionari, sono mezzi spesso più efficaci per garantire il perseguimento dell'interesse pubblico e il rispetto dei diritti dei cittadini.
Si deve concludere che la rinuncia al livello intermedio (fra Comune e Regione) per la rappresentanza elettiva è un passo sostanziale per la semplificazione della nostra struttura amministrativa, che naturalmente dovrà essere accompagnato e seguito da idonei provvedimenti concernenti l'organizzazione delle Regioni, la creazione delle aree metropolitane, e i processi aggregativi fra Comuni. L'importante è che questo passo venga fatto senza indugio, come segnale di un intento riformatore ma insieme razionalizzatore della pubblica amministrazione.

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